If English is your first language and you could translate my old Italian text, please contact me.
Scroll down for recent reviews in English.
|
Laurie Anderson (1947) è una delle artiste che ha definito il termine
"avanguardia" per la fine del secolo: una posa fredda, distaccata, astratta, raffinatamente volgare, sottesa
da una paura irrazionale del presente e da premonizioni inquietanti del futuro, e masochisticamente
succube della tecnologia moderna.
Anderson ha coniugato musica elettronica, minimalismo, gestualismo e ha
immesso nel vocalismo sperimentale la maniera del music-hall. Saliente come punto di fusione e
compromesso, il suo stile di canto ha importanza soprattutto per aver nobilitato il recitato. La sua arte
compositiva è comunque soprattutto un fatto di arrangiamenti, di integrazione di eventi (sonori e
non) fra loro culturalmente distanti, in un nuovo genere sofisticato e leggero, futurista e pan-etnico, di
forma-canzone. Anderson eccelle soprattutto nell'aspetto multimediale. Le musiche, in sè, sono
spesso inferiori all'assunto.
Il suo limite di fondo è
quello di non essere capace di interiorizzare le sue esperienze, di limitarsi a fotografarle e poi esibirle,
perdendo tutto ciò di umano che le distingueva da una semplice immagine immobile.
Nata nel 1947 a Chicago e appassionata fin da giovanissima di arte, Laurie
Anderson si trasferisce nel 1965 a San Francisco per studiare al Mills College e poi nel 1967 a Manhattan
per studiare scultura ed insegnare arte egizia. Esegue la sua prima performance nel 1972, e da allora
pendola fra Boston e New York. La sua crescita artistica procede di pari passo con le collaborazioni
multimediali a cui partecipa (a fianco di scrittori come John Giorno e William Burroughs, di musicisti
come John Cage e soprattutto Philip Glass).
Uno dei suoi primi spettacoli multimediali consiste in una complessa
scultura stereofonica dalla quale il suono si può propagare soltanto per conduzione ossea
(ovverosia l'ascoltatore deve stare appoggiato al mobile); in un'altra suona il violino su un cubo di
ghiaccio finché si scioglie. Ma le sue performance puntano molto, oltre che sull'apparato
tecnologico, sulle melodie ripetitive, sui brani-conferenza alla Cage e sui vocalizzi "assurdi" che
attraversano da parte a parte lo spettacolo.
Così le sue esibizioni (per esempio New York Social Life
del 1977, una delle sue prime vignette umoristiche, o il reggae It's Not The Bullet That Kills You It's
The Hole, dedicato all'artista Chris Burden che usava spararsi nel braccio e rotolarsi su pezzi di
vetro), si possono accostare al teatrino off e al cabaret elettronico, via Cage (padre del gestualismo e della
recitazione musicale) e via Varese (alla cui memoria potrebbe dedicare il "tape bow violin", un violino che
va suonato con nastri pre-registrati infilati nel classico archetto). Le voci che popolano questi sketch
dell'assurdo sono eteree e cosmiche, improntate a una magica miscela di ironia e pathos.
La litania di Time To Go (composta nel 1977) è la prima
trance ad ottenere un ascolto di massa. Basta poi una lieve deviazione verso il paganesimo delle
discoteche per imporre le sue graziose armonie elettro-vocali all'attenzione dei disc-jockey. Dall'opera
multimediale United States (sedici ore di parole, suoni e immagini) estrae il materiale per Big Science (Warner, 1982), frammenti diafani e arcani
di sotto-cultura pop eseguiti con l'accompagnamento di Brian Eno, David Van Tieghem, Peter Gordon e
George Lewis.
E' un sottile esercizio di umorismo elettro-ballabile con graziose melodie a
ritmo di respiro e un senso acuto della malinconia universale, a cominciare dal recitato ammaliante della
sirena "orientale" di Big Science e dalle fanfare goliardiche di From The Air, passando
per la danza medievale di Born Not Asked e la sarabanda caraibica di Example 22, per
finire con le pulsazioni organiche, ma a struttura innodica, di Oh Superman, bisbigliata in un tono
dimesso da night club, e con la soffice ballata robotica Let X=X (i due hit).
Le sue canzoni-sketch si svolgono lente, ripetitive e colloquiali, in
un'atmosfera dimessa ed irreale fatta di ritmi etnici e di soffici tappeti elettronici, a metà fra
l'ipnosi e l'onirismo. Strati di vocalizzi filtrati, più recitati che cantati (secondo la tecnica del
Sprechgesang, della canzone-discorso), danno luogo a melodie ben riconoscibili. I testi sono a loro
volta ispirati ad una comica filosofia del quotidiano.
L'opera United States (1983), che oltre alla musica e all'azione
richiede anche la proiezione di immagini e video tramite dispositivi inventati
da Bob Bielecki, comprende anche balletti futuristi
(Talkshow, Odd Objects), sonate e assoli di violino elettrico (la romantica Pictures Of
It e il surreale Duet), esilaranti fanfare-gag da music-hall (Cartoon Song, Yankee
See, Dog Show, Sweater) ed epiche sarabande funky
(Language Is The Virus,
City Song, We've Got Four Big Blocks).
In 1983 Anderson commissioned Bob Bielecki headlight glasses for her increasingly technological live performances.
Mister Heartbreak (1984)
racconta la storia della psiche di un commesso
di drogheria mentre viaggia attraverso le macerie del sogno americano, ora spettatore ed ora spettacolo
egli stesso. Al falsetto psicotico e al synclavier psichedelico della Anderson si aggiunge una folla
eterogenea di personaggi illustri: Peter Gabriel, Adrian Belew, Arto Lindsay, Anton Fier, Bill Laswell,
Van Tieghem e persino William Burroughs. Una ragnatela in espansione di trivia sonori e di simboli
obliqui origina i brani. Un ordinato accumulo di world-music, cacofonie, riff di hard-rock, musichette da
fiera, passi di danza, tribalismi sudamericani, cori e fanfare compone per esempio la filastrocca in
crescendo di Sharkey's Day.
Nel tumulto di arrangiamenti si protende il languido e verboso, fatale e
anemico recitar (o bisbigliar...) cantando di Anderson, che cesella la suspence marziale di Gravity's
Angel (scampanio ossessivo, dissonanze casuali, percussioni africane), l'atmosfera zen di
Kokoku (organo liturgico, rumori e versi di jungla, coro giapponese), l'impressionismo magico di
Blue Lagoon (cadenza da music-hall, pullulare rarefatto di percussioni, brezze melodiche di
synth), per chiudere nella sarcastica fanfara caraibica di Sharkey's Night.
|