Katharine Hepburn


Best films:
Howard Hawks' Bringing up Baby (1938)
John Huston's The African Queen (1951)
Joseph Mankievicz's Suddenly Last Summer (1959)
George Stevens's Alice Adams (1935)
George Cukor's The Philadelphia Story (1940)
Sidney Lumet's Long Day's Journey Into Night (1962)
George Cukor's Sylvia Scarlett (1936)
Vincente Minnelli's Guess who's Coming to Dinner (1967)
George Cukor's Little Women (1933)
George Cukor's Woman of the Year (1942)
Frank Capra's State of the Union (1948)
David Lean's Summertime (1955)
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Nata nel 1907, da una famiglia del New England di origine scozzese, forse la più grande attrice di Hollywood, Katharine Hepburn, ha dominato per ben mezzo secolo un esercito di agguerrite, anche se non sempre a ragione, concorrenti. Ha resistito al tempo e alle mode, mutando l'abito da ragazza romantica e sbarazzina in quello da moglie affezionata e indipendente, e quello da donna tesa e tormentata in quello da vecchia e desolata zitella, grazie a una straordinaria capacità di immedesimarsi nei suoi personaggi e di passare con disinvoltura dal registro drammatico a quello comico. Hepburn non ha niente a che vedere con i miti precari delle vamp occasionali del cinema americano, che solo alla fine della carriera tentano di conquistare una credibilità professionale. Hepburn fisicamente è molto meno bella delle rivali: un corpo magro, ossuto, spigoloso, tutt'altro che femminile; un viso scavato, un'espressione dura, una bocca tagliata nel granito, un nugolo di lentiggini.

Ma dispone di una personalità unica, energica, grintosa e puntigliosa; un temperamento capriccioso e petulante, con scatti nevrotici che la rendono sgradevole e litigiosa verso tutti; decisa nel sostenere le proprie opinioni davanti a chiunque, regista e produttore compresi; e abbastanza intelligente da poterselo permettere. Fieramente attaccata alla propria indipendenza come donna e al proprio mestiere come attrice, è stata in effetti un monumento vivente dell'individualismo americano.

Nonostante abbia recitato in una quarantina di film, e sempre come protagonista, non è legata a uno stereotipo, se non a quello di sé stessa, l'attrice capace di ridere nel modo più divertente e di piangere in quello più patetico, senza limiti.

Il padre, chirurgo, allevò i suoi sei figli secondo canoni tradizionali: Katharine fu educata dapprima in casa da insegnanti privati e in seguito frequentò un collegio femminile; ma entrambi i genitori professavano idee progressiste e le applicarono nell'ambito della loro comunità attirandosi qualche volta l'ostilità dei più accaniti conservatori. Hepburn fu formata così all'indipendenza fin da bambina; e poté dare libero sfogo alla sua passione per il teatro: dalle recite di beneficenza durante la villeggiatura alle rappresentazioni universitarie. Laureatasi ventunenne a Boston, ottenne una lettera di presentazione per una compagnia di Baltimora. Sfoderando una insolita determinazione riuscì a farsi assumere come principiante, mentre iniziava studi di dizione e danza nei migliori istituti di New York. Dopo pochi mesi di tirocinio debuttò a Broadway e nn interruppe la sua ascesa neppure dopo aver sposato un esponente dellintellighenzia di Philadelphia. Due difetti si opponevano però alla buona riuscita dell'attrice: la dizione precipitosa, qualche volta perfino stridula, quasi isterica, e il carattere arrogante. Passò così da un teatro all'altro, ora come riserva, ora come comparsa, finché recitando in "Animal Kingdom" di Philip Barry e "The Warrior's Husband" di Julian Thompson, impressionò un talent scout di Hollywood. Pochi giorni dopo cominciava a girare con George Cukor il suo primo film. In pochi mesi, celebrata per l'eccellente riuscita della pellicola e per la sua testarda indisponenza, divenne un personaggio, e poco a poco Hollywood si adattò a sopportare quell'eccentrica ed emancipata dilettante. Cominciava nel frattempo con Little Women (1933) la serie delle sue grandi interpretazioni nei panni dell'adolescente intrisa di sogni e rannicchiata nel suo piccolo mondo di affetti ma al tempo stesso ingenuamente spregiudicata, che culminò nelle trepide caratterizzazioni di Alice Adams (1935) di George Stevens, Sylvia Scarlett (1936) di Cukor e Susan di Bringing up Baby (1938) di Howard Hawks. Felicemente divorziata, alla fine del decennio era ormai una consumata veterana di Hollywood, colorita protagonista dei pettegolezzi che avvelenavano la vita della colonia di Hollywood e stereotipo di successo della commedia leggera.

Approfittò di uno dei suoi numerosi litigi con i produttori per tornare in teatro, con The Philadelphia Story di Barry, che l'anno dopo (1940) segnò il suo rientro a Hollywood (adattamento di Cukor). L'attrice interpretava da un po' di anni la parte di compagna-rivale, caotica adescatrice e dominatrice di un maschio recalcitrante, e nelle schermaglie para-coniugali aveva trovato un partner ideale, Cary Grant, vittima ideale delle sue diaboliche macchinazioni. I loro battibecchi, condotti a ritmo sfrenato, erano degli spettacoli dentro lo spettacolo, saggi di virtuosismo che la parte femminile conduceva con tutta una serie di gesti e di sguardi, a raffiche di parole, sfoderando la naturalezza di chi interpreta sé stesso.

Nel 1942 Hepburn si accoppiò invece a Tracy, e fu l'inizio di una lunga, per quanto incostante, relazione, professionale e non. Impersonarono insieme per vent'anni la coppia comune, l'uomo burbero ma affettuoso e la donna emancipata ma inesorabilmente femminile.

Mentre il suo carattere la portava a condurre di fatto il film col regista e poco a poco la spinse a impegnarsi nella produzione, il suo repertorio si accresceva di interpretazioni superbe; proprio quel tono di voce metallico, quella camminata goffa e quell'eleganza sostenuta, per cui era stata messa al bando dal teatro, si rivelarono film dopo film le sue armi migliori, accoppiate a uno spiccato senso dell'humor e a un'innata predisposizione per l'azione caotica. La sua recitazione contrastava vivamente con quella misurata di Tracy, e di fatto trascinava tutto il film; poteva anche attingere a un mestiere ormai consolidato e ciò, unito alla totale libertà che le veniva concessa sul set, non poneva praticamente limiti ai suoi exploit. I migliori film della coppia furono i primi, tour de force briosi ispirati probabilmente anche dai loro rapporti privati; Woman of the Year (1942) di George Cukor e State of the Union (1948) di Frank Capra, ma anche l'ultimo Guess who's Coming to Dinner (1967) di Minnelli, su uno sfondo quasi nostalgico (Tracy era morente), con uno stile più posato e maturo.

I temi affrontati nei film degli anni quaranta furono generalmente più impegnati di quelli del decennio precedente.

La donna di Hepburn si emancipò, si collocò in una società maschilista in cui le era necessario prendere ogni giorno posizione; oppure si pose a baluardo dei grandi ideali della nazione, dalla democrazia all'uguaglianza razziale.

Negli anni cinquanta affrontò senza timore il ruolo scabroso di vecchia zitella, pennellando con meno brio ma più umanità, l'esistenza frustrata, inquieta ed indifesa di una donna sola: The African Queen (1951) di John Huston e Summertime (1955) di David Lean. In questo periodo Hepburn si libera dalla morsa dei produttori di Hollywood e decide di persona quali film accettare. E' il periodo dei primi riconoscimenti ufficiali e dei trionfi teatrali in opere di Shaw e di Shakespeare; il topo di teatro che covava in lei poté finalmente dispiegare il suo fascino sottilmente anomalo nel versante drammatico.

Ma le prestazioni drammatiche più magistrali furono quelle del decennio successivo, in film tratti dai capolavori di Tennessee Williams, di O'Neill, di Girardoux e di Euripide: la madre impazzita di dolore di Suddenly Last Summer (1959, Joseph Mankievicz), la drogata cronica di Long Day's Journey into Night (Sidney Lumet), la contessa eccentrica di Madwoman of Chaillot (1969, Bryan Forbes) e della decaduta regina Ecuba di The Troyan Women (1971, Cacoyannis) sono personaggi allucinanti, disperati che brancolano alla ricerca di sé stessi; egocentrica, morbosa, umiliata o squilibrata, Hepburn riesce sempre a raggiungere vertici altissimi; s'incomincia a dire, giustamente, che recita per sé stessa, indifferente alla presenza sulla scena degli altri attori.

Il suo ritorno a Broadway nel 1970 fu un avvenimento trionfale: un pubblico elettrizzato fece la fila per nove mesi per andare a vedere una ultrasessantenne che era adesso considerata la bellezza più affascinante del mondo dello spettacolo.

Le celebrazioni di questa diva sui generis hanno raggiunto livelli unici dopo l'assegnazione di ben quattro Oscar (1933, 1967, 1968, 1982). Negli ultimi anni Hollywood ha suggellato il suo dominio affiancandola prima a John Wayne (1975) e poi a Henry Fonda in due film che valgono come riconoscimento definitivo dei grandi di Hollywood.

Mori` nel 2003.