Gli anni '30 in Europa furono all'insegna della crisi economica e dell'avvento del totalitarismo (Mussolini, Franco, Hitler).
Il cinema subì una notevole trasformazione per effetto da un lato dell'avvento del sonoro e dall'altro della riconosciuta importanza politica del film. Data per scontata l'influenza di Hollywood, il cinema si volse a sfruttare la nuova risorsa della voce e fu sfruttato per imporre una visione della vita.
La nascita di una cultura di massa (dovuta alla massiccia diffusione di mass- media quali il giornale e la radio) favorì le strategie di propaganda.
In Italia e in Germania, paesi cinematograficamente già prosperi, il mutare dei tempi ebbe un influsso nefasto.
Il teatro, depositario nei secoli dello spettacolo colto e dello spettacolo popolare, è la fonte dei generi cinematografici. Il cinema assorbì e proseguì soprattutto le linee popolari, quelle forme di spettacolo che potevano essere facilmente recepite da un pubblico vasto, eterogeneo e desideroso soprattutto di svago. Anche nell'ottocento tali forme si potevano dividere in leggere e serie, comiche e tragiche. Le prime erano rappresentate sopratutto dal vaudeville, nato in Francia e rapidamente diffusosi in tutta Europa; le seconde trovarono nel mélo il loro sbocco naturale. Fiorito fra Impero e Restaurazione, il mélo era un tipo di spettacolo drammatico che sovente toccava le corde del patetico, strutturato in una serie di intricate avventure che avevano il potere di far trattenere il fiato e di commuovere il pubblico più ingenuo, al quale comunque veniva puntualmente propinato un lieto fine. Il pubblico più smaliziato non si divertiva a queste grossolane e macchinose imitazioni della tragedia, e deplorava l'accompagnamento di violino che sottolineava le fasi più lacrimevoli. Il mélo era inoltre costruito su dei personaggi stereotipi (l'innamorato leale e coraggioso, l'innamorata fedele perseguitata dal fato o più semplicemente da un malvagio, un certo numero di buoni e cattivi assortiti nettamente separati in due schiere), sfruttava il moralismo di moda (che il finale immancabilmente premiava) e modernizzava le figure secolari del cavaliere, del brigante e della principessa. Passioni violente, ingiustizie plateali, straordinarie rivelazioni, non erano altro che i segni premonitori del dramma romantico. Il mélo, trapiantato in Inghilterra alla fine del secolo, vi si radicò accentuandone, se possibile, il carattere catastrofico, spettacolare e sentimentale, contendono per decenni il primo posto nell'evasione al romanzo d'appendice. Da quello, e non da questo, attinse il cinema per forgiare il thriller e l'horror, e quello, intorno agli anni trenta, scomparve proprio perché il cinema ne aveva ormai preso il posto a tutti gli effetti. Il melodramma cinematografico conservò i temi (soprattutto quello dell'"amore impossibilie") e la struttura dell'omologo spettacolo teatrale ma, potendo svariare su un immaginario ben più esteso e complicare a volontà le trame, si differenziò in tanti sottogeneri identificati prevalentemente dall'ambientazione: bellica, domestica, esotico-aristocratica, sudista; fondendosi di volta in volta con la cultura o sottocultura omonima.
I luoghi comuni della guerra (eroismo e patriottismo dei buoni, sadismo e viltà dei cattivi) furono il terreno ideale per la crescita del melodramma cinematografico; lungi dall'affrontare la Storia, il cinema si limitò a portare sullo schermo storie istruttive di giovani come tanti disposti al sacrificio messaggeri di ideali di fratellanza. Birth of a nation e Shoulder arms pur viziati e nobilitati dalla grande arte dei rispettivi autori, aprirono le porte a The big parade di Vidor, (il migliore dei film d'amore), a Wings di William Willman (il primo film d'aviazione, che idealizzò i piloti come cavalieri medievali dell'aria), a All quiet on the western front di Lewis Milestone (il più celebre dei film pacifisti).
Il melodramma domestico era composto invece da tenere storie, in cui la realtà della vita quotidiana veniva trasfigurata in una dimensione di affettuosa e dolce malinconia. Borzage, Stahl, Vidor e il primo Ford, furono i profeti di questo cinema familiare, nel quale si ritrovano gli ideali e le condizioni sociali della depressione; e nel quale le lacrime sgorgano da un chapliniano senso della bontà degli umili. Shirley Temple, la povera orfanella manicheamente circondata da buoni e cattivi, che alla fine finisce sempre per trionfare, condensa le paure e i sogni della depressione (Curly top, 1935, di Irvin Cummings). La povertà e l'umiltà dei buoni e il lieto fine sono le costanti del melodramma borghese.
Il melodramma fantastico, ambientato nell'alta società o in paesi esotici, discendeva dal melodramma passionale del muto e dall'operetta mitteleuropea; tendeva a colpire l'immaginazione dell'uomo comune presentandogli la vita meravigliosa di un'altra umanità, sollevata dai suoi problemi quotidiani e tutta dedita a supremi intrecci amorosi.
Greta Garbo ne fu l'interprete naturale (ma anche Marlene Dietrich può rientrare in questa casistica), un'eredità passata a Rita Hayworth nel periodo bellico, (Gilda, 1940, di Charles Vidor), mentre registi tuttofare come Garnett (esotista, ironico multiforme, Her man, una prostituta messicana perseguitata da un malvivente e salvata da un marinaio. China seas, per gelosia una ragazza fa assalire dai pirati la nave del capitano che ama, Seven sinners, John Wayne marinaio difende Marlene Dietrich cantante notturna dal boss che la taglieggia), è autore di un melodramma sui generis come One way passage, l'amore impossibile fra una malata di cuore e un condannato a morte che si nascondono l'un l'altra il proprio destino e fissano un appuntamento a cui nessuno dei due potrà andare, Edmund Goulding il triangolo (The razor's edge), (The old maid), e The cantant nymphs, in cui lei muore di crepacuore ascoltando alla radio la sinfonia composta dal musicista che non può amare e l'amore impossibile Dark victory fra una malata di cancro e il suo medico, e Clarence Brown (il regista per eccellenza della Garbo) si distinsero nella massa dei confezionatori. Grandi amori e amori fatali trasferiti nella borghesia contemporanea pullularono per tutti gli anni trenta. Incatalogabili quelli di Hathaway. Il melodramma fantastico fu soltanto una revisione in chiave cinematografica (e aggiornata alle mutate condizioni storiche politiche sociali) dei cliché melodrammatici teatrali, l'omonimo genere di impronta realista (all'estremo opposto quanto a prassi e ideologia) chiede un forte contributo all'evoluzione degli standard di Hollywood, elevando a protagonista la figura del piccolo-borghese, tradizionalmente chiusa dalla concorrenza delle figure più affascinanti dell'eroe, del nobile, del vagabondo, spostando cioé il centro di interesse dallo straordinario all'ordinario, scoprendo che anche dalla vita di tutti i giorni si può ricavare dello spettacolo, e che anzi tale spettacolo è più avvincente per tutta un'ampia fascia di pubblico. In quest'ambito di riscoperta della vita comune si situano anche i documentari di Slaherty.
Il melodramma sudista si rifece alla letteratura generazionale del sud, stendendo un pudico velo sul retroscena di sesso e violenza che caratterizza quel mondo. Gone with the Wind di Victor Fleming fu il caso più clamoroso.
Il terrore cinematografico origina da deformazioni visive (costumi e ambiente) e da deformazioni narrative (trama ed episodi). L'ambiente è esageratamente reale: un castello arredato da castello fin nei minimi dettagli, un laboratorio, un cimitero, una villa che sono tali fino all'ossessione; naturalmente l'illuminazione incupisce e rafforza l'ambiente, preparando ad apparizioni ed eventi inconsueti. Il costume isola il personaggio del terrore rispetto alla moltitudine dei normali; il costume può connotare una particolare deformità fisica (denti del vampiro, la plastica dell'automa), oppure una deformità mentale (la pazzia del fantasma, la schizofrenia di Hyde), può creare un essere mostruoso (la mummia, il mega-gorilla). La trama ispira sentimenti contrastanti, di odio e di amore, di simpatia e di paura, per intrecciarli poi nel modo più repellente. La trama è costellata di episodi macabri, lugubri, violenti, che acuiscono il sensazionalismo della trama stessa.
L'atmosfera, reale ma insolitamente reale, e le apparizioni, irreali ma umanamente irreali (dotate di sentimenti e di una vita quotidiana), tratteggiano, più che una straordinaria cronaca nera, un incubo psicanalitico, denso di riferimenti al quotidiano e al tempo stesso di simboli secreti dal subconscio.
La struttura del giallo, quasi sempre rispettata, impone il ricorso in extremis a spiegazioni seriose di carattere o parapsicologiche (ipnotismo, telepatia) o parascientifiche (chimica, medicina, fisica); ma non mancano casi di adesione a superstizioni magiche o religiose. In ogni caso il fenomeno viene alla fine spiegato. Non è la condanna il fine del film del terrore: la sua prassi consiste piuttosto nello spiegare e poi nel distruggere l'origine del fenomeno.
L'horror film si appoggia quindi alla letteratura gotica del sette-ottocento (Lenns, Maturin, Shelley), al romanticismo fantastico dei racconti di Hoffmann e Poe, al romanzo giallo inglese, (Conan Doyle, Collins, Stevenson), al teatro espressionista.
Il cinema, arte dei trucchi per eccellenza, fu fin dal principio il veicolo ideale per le storie di paura, basate soprattutto sull'immagine (il costume e l'ambiente appunto), e sullo svolgimento dei fatti (la trama e l'episodio appunto).
Dopo alcuni film di trucchi di Melies fu il cinema scandinavo a tentare la strada del soprannaturale (Konkarlen di Sgostrom, Hawan di Christensen, Vampyr di Dreyer), peraltro nell'accezione naturalistica del termine; mentre fu l'espressionismo a fornire gran parte degli stereotipi: il mosto (Der Golem di Wegener), il vampiro (Nosferatu di Murnan).
Lo sdoppiamento padrone-schiavo o scienziato-automa (Das Kabineth des dr. Caligari di Wiene, Der Student von Prag di Wegener).
Negli anni venti il morbo attaccò Hollywood e negli anni trenta divenne uno dei generi canonici del cinema americano, grazie anche alla consulenza di immigrati europei come Paul Leni (The cat and the canary e the cast warning), Michael Curtiz (The Mystery of the Wax Museum), Jacques Tourneur, Karl Freund, James Whale, Edgar Ulmer.
Lo zoo dell'horror film si popolò di mostri specializzati, come Lou Chaney (fantasma, vampiro e alla fine uscito di senno nel tentativo di diventare una delle proprie creature), Bela Lugosi (Dracula, Frankestein) e alla fine matto da legare convinto di essere diventato vampiro pure lui, e Boris Karloff ("il" Frankestein, una delle maschere più celebri di Hollywood, all'occorrenza anche mummia e vampiro).
La paranoia della catastrofe che affligge le folle si riversa nei film della paura e origina altrettanto catastrofici mostri, fantasmi materializzati dalla coscienza di massa che, esorcizzati dal lieto fine, servono ad esorcizzare anche la catastrofe incombente che rappresentano.
Il retroterra, la patria dei registi degli attori e dei personaggi, è l'Europa: Lugosi è ungherese, e Karloff inglese, Frankestein vive nelle alpi svizzere e Dracula in Carpazia. Il vecchio mondo che sta crollando è per Hollywood un enorme castello polveroso, nelle cui ragnatele annaspano fantasmi, mostri e relitti umani. L'Europa è vecchia, in via di disfacimento; la gente vive nel terrore di mostri reali (Hitler e Mussolini); in Europa regna l'anarchia: stormi di pipistrelli e scienziati pazzi non potrebbero esistere nella razionale geometria americana. L'Europa è un film del terrore.
Sin dai primi anni di Hollywood i produttori spinsero i registi a saccheggiare la letteratura fantastica; dagli studios californiani uscirono diversi Dr Jekyll and Mr Hyde, Faust, (The Sorrows of Satan di Griffith), e trasposizioni di racconti di Poe. L'era dell'horror può dirsi però cominciata soltanto dopo che The phantom of the opera ebbe imposto nel 1925 la maschera spaventosa di Lou Chaney (un vecchio compositore che vive nei sotterranei dell'Opéra e che un giorno rapisce la giovane cantante di cui s'è innamorato). Mentre Tod Browning sfruttava fino in fondo le possibilità di quella maschera, l'inglese James Whale creava nel 1931 il Frankestein cinematografico: Boris Karloff; alla serie dei Frankestein (la moglie, il figlio, il fantasma...) Karloff affiancò altre orrende interpretazioni di mostri di Freund e Ulmer, restando sulla cresta dell'onda fino al 1936 e tornando alla ribalta intorno al 1945 per merito di Lewton.
Browning lanciò anche la serie dei Dracula (1931) e quindi Bela Lugosi. L'epoca d'oro dell'orrore, che dal 1931 durò fino al 1936, fu anche l'epoca dei licantropi (The Werewolf of London), signori delle tenebre (Svengali), zombie (White Zombie).
Se Browning inaugurò l'orrifico della deformità, Whale si schierò, con tipico humour britannico, per il sensazionalismo a oltranza, Schoedsack si crogiolò con l'esotismo e con il marchese di Sade. Negli anni quaranta Lenton apportò sostanziali modifiche al genere, plasmando un horror psicologico.
Karoly Lajthay in Hungary directed the first adaptation of Bram Stoker's novel "Dracula" (1897), "Drakula Halala/ Death of Dracula" (1921), although the film only appropriates the concept of the vampire, not the actual story, followed by Friedrich Murnau's Nosferatu (1922). The hit in the vampire-horror genre was Tod Browning's "Dracula" (1931).
The other great icon of horror cinema of the 1930s was Imhotep the Mummy, introduced by Karl Freund's The Mummy (1932), Freund being the cinematographer on Fritz Lang's Metropolis.
These films followed more or less in the tradition of the gothic novel of the 19th century.
A new strand of horror, that had to do with Haiti's voodoo, was created by pulp fiction and cinema. Magic rituals of Haiti had already been reported by French writers when Haiti was a French colony, for example in Louis-Elie Moreau de Saint-Mery's "Description Topographique, Physique, Civile, Politique et Historique" (1797). In 1804 Haiti had become the world's first black-led republic and the first independent Caribbean state. Hints of voodoo can be found in Spenser StJohn's "Hayti or The Black Republic" (1884), a survery written by a British diplomat who had lived there for 12 years: a chapter is titled "Vaudoux Worship and Cannibalism". Lafcadio Hearn's article "The Country of the Comers-Back" (1889) in Harper's New Monthly Magazine, later collected in the travelogue "Two Years in the French West Indies" (1890) about his sojourn in the Caribbean island of Martinique, contains the first reference to the "zombi". Another British writer who traveled to Haiti, and across the interior of Haiti, Hesketh Prichard, published "Where Black Rules White" (1900) and included descriptions of voodoo practices. In 1915 the USA invaded Haiti and the US occupation lasted until 1934. The mysterious island ruled by blacks became less mysterious but also more intriguing for US readers. William Seabrook, a New York Times nomadic reporter who had already written about cannibalism in Africa and the life of Arabian devil worshipers, travelled to Haiti and published "The Magic Island" (1929), a much more professional account of voodoo, and the book that introduced the term "zombie" to the masses. Voodoo had already percolated into the USA but white men were unlikely to find it. It was New York's black novelist and anthropologist Zora Neale Hurston who infiltrated the voodoo community in Louisiana and published the article "Hoodoo in America" (1931) in the Journal of American Folklore.
Meanwhile, pulp magazines had become popular in the USA: Frank Munsey had founded the children's weekly The Argosy in 1882, which became a monthly magazine devoted to adult fiction in 1894. The boom took place in the 1920s: Jacob Henneberger's Weird Tales (1923), Bernarr Macfadden's Ghost Stories (1926), Hugo Gernsback's Amazing Stories (1926), devoted to science fiction, and Hugo Gernsback invented the term "science fiction" when he launched Science Wonder Stories in 1929. These pulp magazines loved tales of Haiti's magic. Henry St Clair Whitehead published "Jumbee" (1926) in Weird Tales, the "jumbee" being a zombie. Seabury Quinn's "The Corpse Master" (1929), also in Weird Tales, was a story about Haiti's zombies and voodoo rituals. Garnett Weston (writing under the pseudonym of GW Hutter) published "Salt is not for Slaves" (1931) in Ghost Stories magazine, again about Haiti's voodoo and zombies. Theodore Roscoe published in Argosy several stories of Haiti's black magic: "The Voodoo Express" (1931), "A Grave must be Deep" (1934) and "Z is for Zombie" (1937).
Cinema developed a passion for sensational exotic expeditionary films, often fake documentaries, for example: Martin Johnson's "Head Hunters of the South Seas" (1922), William Campbell's "Ingagi" (1930), in which a white woman is kidnapped by gorillas in Congo, and Faustin Wirkus' "Voodoo" (1933), made by a US marine stationed in Haiti who had been crowned king by the population of one of Haiti's islands.
The film "White Zombie" (1932), produced by Edward Halperin and directed by Victor Halperin, paraphrased Browning's "Dracula" (the scriptwriter was pulp writer Garnett Wilson) and employed Browning's star Bela Lugosi. It's the film that popularized the zombie. The setting in Haiti was influenced by William Seabrook's book "The Magic Island" (1929).
At the same time, Erle Kenton's "Island of Lost Souls" (1932), an adaptation of Wells' novel "The Island of Dr Moreau", mixed science-fiction and horror in the story of another mad scientist like Frankenstein.
Haiti's voodoo appeared also in Roy William Neill's "Black Moon" (1934). 1934 was the last year of the US occupation of Haiti.
Hollywood had quickly gained the reputation of a depraved decadent society producing morally dubious movies. New York already set up a censorship board in 1921. To avoid government action, in 1927 Will Hays, president of the Motion Picture Producers and Distributors of America, proposed a moral code for studios, a code consisting in a list of inappropriate subjects which included profanity, nudity, drugs, sex perversion (e.g. homosexuality) and even white slavery and interracial sex. Basically, Hollywood decided that self-censorship was a way to prevent government-enacted censorship. The proverbial "last straw" was the release of Cedric Gibbons' "Tarzan and his Mate" (1934), a film that featured plenty of savage nudity. Two months later, in June 1934, Hollywood studios set up the Production Code Administration to certify which movies complied with such "Hays Code". Indirectly, the Hays Code made horror movies even more appealing to the masses that couldn't find any violence or sex or magic in mainstream films.
Other books on Haiti's voodoo followed, notably Richard Loederer's "Voodoo Fire in Haiti" (1935), but clearly Haiti had lost its charisma as a mysterious land of magic. New York's black novelist and anthropologist Zora Neale Hurston spent two years in Haiti and reported (and even photographed) a real case of zombie in her book "Tell My Horse" (1938): it wasn't a sensational work, it was the study of an anthropologist.
Cinema too abandoned Haiti. George Marshall's spoof The Ghost Breakers (1940), a farce for Bob Hope adapted from a 1909 play, has a zombie and voodoo but in Cuba. Jean Yarbrough's King of the Zombies (1941) was another zombie comedy, set between Cuba and Puerto Rico; and its follow-up, Steve Sekely's Revenge of the Zombies (1943), is mainly a vehicle for anti-German war propaganda (the mad doctor who wants to create zombies works for Hitler) and it's set in the swamps of Louisiana. Likewise, William Beaudine's film Voodoo Man (1944), starring Bela Lugosi again, has nothing to do with Haiti: it is all based in the USA. Gordon Douglas' Zombies on Broadway (1945) is another farce and it's set in the Virgin Islands. Jacques Tourneur's I Walked With A Zombie (1943) is the first masterpiece of zombie horror: it is set in a sugar plantation of a Caribbean island (which could be Haiti) but it is mostly a love story.
By this time the zombie had become an appealing alternative to the traditional ghost. In fact the two complemented each other: a ghost is a soul without a body, a zombie is a body without a soul. But a ghost can also be good (it has a soul) whereas a zombie is just something horrible.
At the end of World War II comic books turned to horror. Eerie #1 came out at the end of 1946, followed by Adventures into the Unknown (1948), Johnny Craig's comic book "Zombie Terror" (1948), Amazing Mysteries #32 (1949), House of Mystery (1951), Strange Tales (1951), Journey into Mystery (1952), etc. In 1950 William Gaines started publishing three bimonthly anthologies: The Haunt of Fear, The Vault of Horror, and The Crypt of Terror (aka Tales from the Crypt). In 1948 a psychiatrist, Fredric Wertham, had organized the symposium "Psychopathology of Comic Books" which had raised the fear that comic books were a bad influence on young people. In 1954 the same Wertham published the book "Seduction of the Innocent" in which he claimed that horror comics caused juvenile delinquency and then appeared in front of a senate subcommittee to claim that Hitler was an amateur compared with the comic-book industry. The industry copied Hollywood: it introduced self-censorship to prevent government censorship. After 1954 the Comics Code Authority de facto killed horror comics.
Zombies and vampires became politicized during World War II, and even more so at the beginning of the Cold War when fear of communist brainwashing was stoked by senator Joseph McCarthy (1950–54). Don Siegel's Invasion of the Body Snatchers (1956) was notable not only for embodying that anxiety but also for introducing the "horde", not just the individual zombie. Horror cinema matched the mood of the Cold War: the Korean and Vietnam Wars, the student riots, the assassination of John and Robert Kennedy and of Martin Luther King, the Soviet invasion of Czechoslovakia, etc.
La "Depressione": intercambiabilità fra i due generi.
La prima crisi del cinema americano ebbe inizio nel 1921 e si protrasse di anno in anno; alla perdita del pubblico i produttori pensavano di rimediare aumentando il grado spettacolare dei film, puntando sulle super produzioni, sugli all-star cast, su un contorno di attrazioni da music-hall. Il cinema sembrava giunto a un punto morto. Ne uscì nel 1926, grazie al brevetto denominato "Vitaphone" che diede la parola ai film. La novità, pur sconvolgendo l'ambiente e dividendo subito i registi in due schiere, creò un nuovo boom.
I generi nati durante la depressione segnavano un involgarimento del cinema: l'estrema stilizzazione raggiunta dal muto venne scavalcata da un grossolano pastiche di azione e rumore altamente spettacolare. L'idioma del muto scomparve in pochi mesi, e con esso un'intera generazione di classici. La nuova generazione era meno raffinata, più aspra e approssimativa; ma rifletteva semplicemente l'umore dei tempi. I dodici milioni di disoccupati del 1932 non erano ben disposti verso la rarefatta narrativa degli ultimi film muti, mentre venivano coinvolti emotivamente dal film d'azione e si divertivano al varietà.
I primi film "parlati" erano in realtà cantati, e perciò il primo effetto del sonoro fu sancire la nascita del musical cinamatografico. La commedia musicale, l'operetta e il film danzato erano comunque fusioni di commedia sentimentale e rivista, conservavano cioè la struttura del primo innestandovi gli stereotipi della seconda (coreografie sfarzose e alimbiccate, numeri scatenati, trucchi visivi).
esotici Tarzan
musical Vidor, Bacon, Leroy = Berkeley e Astaire
gangster = Leroy e Mamoulian
Scarface Big Sleep Begond
Sternberg CURTIZ FORD HAWKS WELLMANN LANG
LEROY WALSH MAMOULIAN SIODMAK
1 3 1 46?
45
La commedia musicale in Inghilterra e l'operetta, in Francia e in Austria si erano imposte sul finire del secolo presso il pubblico popolare dei teatri, come alternativa ai generi seri di teatro e musica. La commedia musicale era imperniata su una vicenda esile e a lieto fine, sfruttava la curiosità del pubblico per i costumi delle colonie e abusava di melodie sciocche e orecchiabili. L'operetta, originariamente parodia piccolo borghese dell'aristocratica grand-opera, abbracciò a poco a poco una struttura più prosastica e meno musicale, in cui le parti cantate, intercalate a scene di normale recitazione, si configuravano come veri e propri numeri a se stanti; delle origini parodistiche sopravvisse comunque il gusto per i soggetti esotici, mitologici o cortigiani. Sia l'una sia l'altra tendevano naturalmente a ricalcare i modi della rivista, nata secoli prima ma mai nobilitata nell'albo delle arti; la rivista è strutturata in numeri che si susseguono secondo un filo conduttore approssimativo; non ha importanza tanto la trama, il senso finale, quanto lo spettacolo complessivo; ogni numero comprende un po' di prosa, un po' di musica e un po' di balletto e puntava quindi sopratutto sui costumi, sulle coreografie, sulle melodie di cantanti sulle barzellette dei comici e sulle gambe delle ballerine. La commedia musicale culminò con gli spettacoli di Gilbert e Sullivan degli anni ottanta, l'operetta prima (nel periodo parigino, satirico,della metà secolo) con Offenbach, poi (nel periodo viennese, sentimentale e gaio, della fine secolo con i valzer di Strauss e le tresche di Lehar, la rivista con l'istituzione dei suoi templi parigini (Folies-Bergere della belle-epoque). Canzoni e sketch passarono da un palcoscenico all'altro finchè approdarono alle coste americane, paradisi terrestri dello spettacolo. Al principio del secolo l'operetta era perfettamente stilizzata, di un'eleganza impeccabile, ma ormai in via di estinzione, mentre il pubblico era conteso fra i santuari della rivista (il teatro fondato da Florence Ziegfeld a New York), dominato per anni dal comico e cantante Eddie Cantor e gli anfiteatri broadwayani della commedia musicale.Pochi anni dopo la commedia musicale, più completa e più omogenea, aveva definito una schiacciante superiorità; e da Broadway uscivano gli standard della canzone e della comicità, nonchè le star (cantanti e attori). Gli autori agivano quasi sempre in coppia: uno scrittore e un musicista; ma sovente si trattava più che altro di coordinare un'equipe di costumisti, coreografi, attori, musicisti, ballerini, soggettisti,etc.; la commedia musicale era diventata in breve tempo un prodotto industriale.
I temi del musical americano erano ancora quelli europei, esotici e aristocratici, ma fatalmente contaminati dai valori tipici della civiltà.americana, in primis quello del successo, dell'ascesa sociale, del denaro, poi dal folclore del nuovo mondo, che andava dalla epopea del west all'elegia della metropoli.
L'avvento del sonoro non fece che trasferire sullo schermo i successi di Broadway, una prassi che sarebbe continuata anche quando Hollywood avrebbe poi intrapreso delle produzioni totalmente cinematografiche.
Dopo il proto-musicale The Jazz singer del 1927 fu Vidor a dare con Halleluja, un vero film musicale, seppure di tono drammatico, e fu un mitteleuropeo, Lubitsch, ad insegnare l'arte della commedia musicale (The love parade) e dell'operetta (The merry widow) a Hollywood (anche se il primo a fare dei film "musicali" nonostante fossero muti, era stato Clair). Dal 1933 al 1937 il musical godette della sua epoca d'oro. Registi tutto fare come Mervin Le Roy e Rouben Mamoulian, Roy del Ruth, Lloyd Bacon, Mark Sandrich misero la tecnica cinematografica al servizio di coreografi come Busby Berkeley (Applause del 1925) e di ballerini-cantanti come Fred Astaire, Ginger Rogers, e le giovanissime Shirley Temple, Judy Garland, Deanna Durbin, adolescenti che simboleggiano la nascita della nuova America del New Deal e quindi caratterizzano il musical del dopo depressione. Berkeley e Astaire rappresentano i due cliché più sfruttati, rispettivamente il The show must go on e Boy meets girl (love show e stage show). Il musical è l'esorcismo della depressione per eccellenza: spettacolarizza persino la crisi. In effetti il musical non è un genere, ma un travestimento di generi; tutti i film possono essere musicati e diventare con ciò dei musical. Il musical è propaganda di un'ideologia: l'ottimismo. E' la retorica del puro entertainment. Il musical si muove in un limbo onirico, in un mondo di utopia che ammette ogni stravolgimento della realtà che possa apportare felicità ai protagonisti; il musical visualizza l'immaginario collettivo. Il musical, costretto ad ambientarsi sempre in paradisi terrestri, finisce per rappresentare se stesso, applicando un'audace ricorsività: poiché il pubblico identifica ormai il palcoscenico come la sede di produzione del successo sia economico, sia divistico, sia amoroso, il musical deve riprendere se stesso nel momento in cui si fa, e nasce uno dei cliché più duraturi, (il "backstage" musicale) quello dell'allestimento di un musical, pretesto graditissimo per giustificare la sequenza di numeri del film. La sostanza onirica si raddoppia: il musical è un sogno che sogna se stesso.
Un musical nasce da un accumulo eterogeneo di segni, attinti dai vocabolari più disparati: dalla realtà quotidiana, dalle fiabe, da almeno un genere standard di Hollywood, da una moda dell'epoca, da fatti di cronaca, dalla personalità dei protagonisti, da Picasso e Shakespeare, da Molière e Gershwin, da Diaghilev a Chaplin, e infine da se stesso, cioé da un riciclo all'infinito di tutto questo.
I balletti che compongono il musical sono altrettante danze rituali per esorcizzare il quotidiano, e il ballerino è lo stregone capace di estrarre da esso del magico. Sogno favola e magia, il musical culla.
During the silent era, dancing and singing were not particularly popular, as the audience couldn't hear the music (nor the singing). The movies therefore didn't capture the sound of the "Jazz Age", but they left documents of the dance crazes of that period.
The influential Ziegfeld Follies, the Broadway musical revues started in 1907 by Florenz Ziegfeld to imitate the shows of the Folies Bergere cabaret of Paris, didn't spill over into cinema until Ziegfeld Follies (1945), scripted and choreographed by Charles Walters for producer Arthur Freed, a collage of skits directed by multiple directors (notably Vincente Minnelli), and honestly unrelated to the historical revue.
Rex Ingram's The Four Horsemen of the Apocalypse (1921), starring Rudolph Valentino, launched a tango craze, and Charles Bryant's Salome' (1922), starring Alla Nazimova (born Adelaida Leventon in Russia), an adaptation of the Oscar Wilde's 1891 play, sparked a classical-dance craze.
Legendary charleston dancer Joan Crawford (born Lucille LeSur) danced on a table in Harry Beaumont's Our Dancing Daughters (1928), a silent movie with a synchronized soundtrack, the film that made her a star. She remembered having been a great dancer when she was already an international star in Robert Leonard's Dancing Lady (1933), which also featured the debut of Fred Astaire.
Black star Josephine Baker (born Freda McDonald in St Louis, revealed on Broadway in 1923 by the all-black musical "Shuffle Along"), who had become a sex symbol at Paris' cabaret "Folies Bergere" since 1925, made her film debut in Jean Epstein's La Sirene des Tropiques/ Siren of the Tropics (1927), but movie audiences had to wait until Marc Allegret's Zouzou (1934) and Edmond Greville's Princess Tam Tam (1935) to see her dance and hear her sing.
Dancing rapidly became the real attraction in a musical. After all, cinema was still mainly a visual art. Al Jolson's wife Ruby Keeler popularized tap dancing in Lloyd Bacon's 42nd Street (1933), the film that also launched Busby Berkeley's lavish choreography. The duo of legendary Broadway tap dancer Fred Astaire (born Fred Austerlitz) and Ginger Rogers (a charleston dancer of the vaudeville circuit) debuted in Thornton Freeland's Flying Down to Rio (1933). Their partnership lasted ten films, such as Mark Sandrich's Shall We Dance (1937).
The epic of the young single female dancer, which had run through Hollywood since the 1920s, peak with the Dorothy Arzner's feminist Dance, Girl, Dance (1940).
Two Hollywood musicals with all-black casts were released in the middle of World War II: Vincente Minnelli's Cabin in the Sky (1943), which simply adapted a 1940 Broadway musical, and Andrew Stone's Stormy Weather (1943), mainly a dancing movie, featuring legendary tap dancer Bill "Bojangles" Robinson, the Nicholas Brothers and Katherine Dunham's dance company.
The happy ending guarantees that the gangster will die. Good may triumph in multiple ways: the good guy kills the gangster, the gangster repents, fate kills the gangster, other gangsters kill him. And sometimes the gangster dies heroically, blurring the border between good and evil. Often the gangster demands a modicum of compassion from us because he is a beast that has to survive in the most dangerous of environments, armed enemies at every corner, a labyrinth of mean streets where every shadow may hide the fatal killer, a cityscape where corruption is pervasive, and typically the economic despair of the Great Depression or the immigrant slums. After all he is a hard-working man who rises from poverty to success, and in his own way he personifies the "American Dream". The gangster is still alive and is the boss and is a public enemy because he is smarter and rougher than the others. The difference with the western movie are telling: in the western movie the "gangster" is nameless and it's a group (the "Indians"), whereas the central character is the cowboy or the sheriff who symbolizes not only "goodness" but also the defense of order. In the gangster movie there is actually no major positive hero, as the cops are usually just a nondescript force. The cops are a very mundane element. The equivalent of the cops in western movies (the cavalry) are more similar to a mythological element. The gangster movies and the western movies share the appeal of mass violence. Gangster movies rapidly evolved from a few murders to dozens of murder The original gangster movie didn't have to deal with "period reconstruction" because it was filmed in the years of the gangster terror. Later gangster movies like Bonnie & Clyde (1967) and The Godfather (1972) would be often judged by how well they recreated the landscape and atmosphere of the 1930s.
Julien Duvivier instead viewed the gangster as a doomed loner in Pepe' le Moko (1936).
The original gangster movie was urban but soon there were rural variations: Raoul Walsh's High Sierra (1941), Nicholas Ray's They Live By Night (1947), Joseph Lewis's Gun Crazy (1950).
The genre rapidly evolved into a more balanced introspection into the human soul, that can be good and evil, compassionate and cruel, at the same time (High Sierra), and can be even more complex with degrees of good and evil and different reasons for each to emerge (Fritz Lang's The Big Heat, 1953).
An offshoot of the gangster movie is the prison movie (Mervyn LeRoy's I am a Fugitive from a Chain Gang, 1932). Another offshoot is the ganster noir, where the central character is not the boss of the gang but a humbler gangster who drifted into it: Henry Hathaway's Kiss of Death (1947), Robert Siodmak's Criss Cross (1948), Abraham Polonsky's Force of Evil (1949), Don Siegel's The Killers (1964), etc. The genre was demystified and even satirized in the musical, like in Joseph Mankiewicz's Guys and Dolls (1955), and and in screwball comedies like Billy Wilder's Some Like it Hot (1959), and turned into an adventure in Jean-Luc Godard's A Bout de Souffle (1960).
Arthur Penn's Bonnie and Clyde (1967) marked the renaissance of the genre at a time when period reconstruction mattered, and Jean-Pierre Melville: Le Samourai (1967) coined the existential gangster movie that peaked with Coppola's Godfather (1972). Then came the post-modernist take on the genre with Casino, Mean Streets, Goodfellas and Reservoir Dogs and Pulp Fiction.
62 Il gangster non è che l'ennesima reincarnazione del romantico fuorilegge: i poveri hanno sempre idealizzato i banditi che nella loro fantasia diventano giustizieri. Da un lato l'ammirazione per l'uomo che lotta solo contro lo strapotere delle autorità, dall'altro la solidarietà verso il proprio simile costituiscono due potenti stimoli per l'immaginazione popolare. Da Robin Hood a Jesse James il bandito eroico ha mutato sembianze adattandosi man mano alle nuove condizioni sociali, ma è rimasta inalterata nei secoli la sua funzione simbolo del riscatto dalla miseria. Nell'America della depressione il gangster truce e spietato rappresentò un compromesso paradossale fra il folclore e la propaganda, se infatti egli è pur sempre l'eroe solitario, è al tempo stesso un monito per chi intende mettersi sulla cattiva strada, poiché inesorabilmente destinato a soccombere; se è vero che rappresenta la disubbidienza ai codici sociali, è anche vero che il più delle volte la sua epopea è la storia di un tipico self made man, che dal nulla riesce a costruire un impero, sia pure del crimine. Il gangster è insomma un personaggio profondamente americano, ligio ai valori più sacri della libertà e dell'intraprendenza, e al mito del successo.
I film stabilivano gli stereotipi del mestiere di gangster. Le attività vanno dal gioco d'azzardo alla prostituzione, dal contrabbando di alcoolici e droga al racket dei negozi. Il territorio è spartito fra bande rivali, ciascuna organizzata come uno stato totalitario clandestino: in un covo segreto il capo impartisce le direttive ai suoi scagnozzi, i killer sono i poliziotti che mantengono l'ordine. Alla malavita organizzata, che ripropone gli stessi caratteri dello stato che mira soprattutto a mantenere l'ordine, si può invece contrapporre il gangster solitario, l'anarchico individualista che non lotta per conquistare uno status sociale, una posizione manageriale, ma soltanto per soddisfare i propri bisogni momentanei.
L'iconografia del genere imponeva poi che il gangster fosse un immigrato (possibilmente di origine italiana), nato in uno dei ghetti metropolitani; che indossasse abiti seri ed eleganti, a dimostrare la propria professionalità; che disponesse di un'auto, e di un mitra, i suoi strumenti di lavoro. Il gangster è quindi un animale di città: parla in slang, conosce a menadito le strade, usa armi moderne, telefoni, radio e automobili; il gangster e la città formano un circolo chiuso, sono l'uno causa ed effetto dell'altra; la città, spietata e crudele, ha plasmato l'uomo duro ed ignobile, e il gangster, brutale e volgare, plasma le strade squallide e buie; la città protegge il gangster: gli offre una tana mimetizzata in mezzo a milioni di appartamenti; e il gangster protegge la sua città, i locali notturni, le sale da gioco, gli alberghi a ore e le distillerie clandestine.
Nel mestiere del gangster è racchiusa tutta la crudeltà e la desolazione degli altri mestieri. Una durissima selezione, lotta per la sopravvivenza, presiede al successo; solo i più dotati e i più decisi arrivano, mentre gli altri vengono falciati in massa. E in ogni caso la regola più rispettata è quella di far morire alla fine anche il gangster, anche l'unico che è riuscito a farsi largo.
L'agiografia dei gangster era già nutrita nel 1930: alle gesta di Al Capone (imperatore di Chicago dal 1927), a quelle di Bonnie e Clyde, di John Allinger (la star del crimine 1934), al massacro del giorno di San Valentino, si ispirarono un po' tutti i soggettisti degli anni trenta.
Il film di gangster rappresenta un documento fondamentale sullo stato di miseria materiale e morale vigente nell'America della depressione: lo squallore degli slum e la corruzione delle autorità avvicinano bassifondi e high-society a un'unica infernale bolgia di depravazione.
I film sul crimine, nati con i serial francesi (Fantomas di Fenillade), avevano anticipato il genere con film come Alibi di Rolandwest, Underworld di Sternberg e City streets di Mamoulian e The racket di Milestone (non a caso tre registi mitteleuropei). L'esplosione si ebbe però con tre film usciti fra il 1930 e il 1932: Little Caesar di Le Roy, Public Enemy di William Willman, The big house di George Hill (di ambientazione carceraria), Scarface di Howard Hawks. Con questi tre film (ciascuno rappresentando un successivo grado di approfondimento) il genere era iniziato e finito; gli altri ne sarebbero state soltanto delle copie, belle o brutte. Passata la paura, il cinema seppe perfino ridere del fenomeno (come in Whole town's talking di Ford, 1935).
Ma il genere fu connotato soprattutto dalle maschere più celebri dei cattivi: Arthur Robinson, James Cagney, Humphrey Bogart. Finché nel decennio successivo Walsh, con Roaring twenties e High Sierra ne avrebbe aggiornato lo standard. Hawks con The big sleep (1946), Wyler con Dead and street (1937) il gangster è un nevrotico invece di essere una vittima. Accanto al film di gangster si situa quello di ambiente carcerario: I was a fugitive di Leroy, Marked women e San Quentin (1937) di Lloyd Bacon.