Shadowfax
(Copyright © 1993 New Sounds)

Chuck Greenberg e' il leader e fondatore del gruppo che ha di fatto inventato l'ensemble acustico moderno. Gli Shadowfax hanno creato uno standard con cui oggi decine di complessi devono misurarsi.

Ogni disco degli Shadowfax, pur mantenendo certe costanti, e' stato diverso dai precedenti. L'ultimo, "Esperanto" (Earthbeat, 1992), non fa eccezione. Innanzitutto perche' si chiama cosi'?
"E' una metafora per cio' che stiamo cercando di fare musicalmente. L'esperanto venne inventato per abbattere le barriere che separano artificialmente le lingue del mondo, e pertanto le sue genti. Il nostro obiettivo e' sempre stato quello di coniare un "esperanto" della musica, per infrangere i confini fra i generi musicali e raggiungere il maggior numero di persone. In un certo senso tutti i nostri dischi dovrebbero intitolarsi "Esperanto".

E il contenuto?
"In ogni nostro disco immettiamo nuovi elementi. Negli ultimi avrai notato una maggiore propensione per l'elettronica, e la tecnologia in generale, che all'inizio della nostra carriera avevamo invece bandito. In un certo senso in questi ultimi dischi avevamo smesso di fare le cose che sappiamo fare meglio: l'intreccio di percussioni, il contrappunto fra i vari strumenti, l'esaltare i timbri acustici. Ebbene "Esperanto" torna un po' alle origini, riscoprendo quegli aspetti della nostra musica; analizza le stesse cose che facevamo dieci anni fa, ma alla luce dell'attuale maturita'."

In passato c'erano forse piu' influenze della musica classica?
"Forse si'. Ma ogni musicista moderno deve vedersela con un problema di fondo: i 45 o 50 minuti di un album ti pongono due vincoli: da un lato devi cercare di coprire il territorio piu' ampio possibile, per non annoiare e per non risultare banale; dall'altro devi stare attento a non coprirne troppo, altrimenti perdi coesione. Non e' facile trovare un equilibrio fra questi due obiettivi. Ovvero non sempre possiamo permetterci il lusso di sperimentare troppo con la musica classica, anche quando forse lo vorremmo fare. In questo disco ci siamo concentrati su cio' che sappiamo fare meglio: un approccio da "ensemble" alla musica. Cio' non vuol necessariamente dire "classico", anzi: c'e' musica per ensemble che si presta all'improvvisazione e c'e' musica che deve essere suonata esattamente com'e' stata scritta. Su quest'ultimo disco prevale il primo aspetto: credo che improvvisiamo e sperimentiamo di piu' che nei dischi precedenti. In questi giorni sto invece lavorando a due nuovi brani che definiresti certamente piu' classici."

Quindi mentre noi abbiamo appena preso confidenza con "Esperanto" voi state gia' lavorando al successivo?
"Il prossimo disco sta prendendo forma molto rapidamente. I membri del gruppo sono sparsi fra la Florida e la California, e ogni tanto li vado a trovare per mettere insieme cio' che hanno preparato loro. Adesso sto per partire e andare a trovare Phil (ndr: Maggini, il bassista) e vedere cosa ha combinato in queste settimane. Ma in linea di massima credo che saremo pronti ad entrare in studio nella primavera e il disco dovrebbe uscire all'inizio del 1994."

Che musica ascolti?
"Molta e molto diversa. Molta della musica che ascolto non e' la stessa che mi influenza. Tanto per cominciare io sono cresciuto nel Southside di Chicago, la zona in cui esercitavano i grandi bluesman: Muddy Waters, Willie Dixon e cosi' via. Quei personaggi ebbero una grande influenza sulla mia formazione. Era gente che badavano alla musica, che davano un'interpretazione pura delle loro emozioni. Non erano contaminati e viziati dall'ambiente discografico. John Coltrane come sassofonista e' stato anche un mio grande idolo. Roland Kirk. Poi Miles Davis e Don Cherry, che hanno influenzato tutti noi per il modo in cui fecero convergere diversi generi e riuscirono comunque a conservare una propria personalita'. Stimo Peter Gabriel per la sua "fusion" etnica. Ascolto anche musica dell'Estremo Oriente, Bali, l'India... Devo pero' confessarti la verita': se sono solo in casa, davanti a una birra, e devo mettere qualcosa sul piatto, allora scelgo Otis Redding.

Ascoltando la vostra musica non sembra che il blues sia stato poi cosi' importante...
"Il blues come umore, come modo di esprimersi, come ideologia artistica... Come posso spiegarti... Era meraviglioso uscire e passare la notte ad ascoltare Muddy Waters. In altre citta' quella musica era un fenomeno commerciale, ma dove sono cresciuto io era autentica, pura; suonavano quella musica perche' ne avevano bisogno emotivamente. Era l'atteggiamento, piu' che le note, era il loro amore per la musica che mi affascinava e che spero sia rimasto dentro di me."

Come ti classificheresti? Jazz o new age?
"Non abbiamo mai voluto essere catalogati in nessun genere. Era anzi uno dei nostri obiettivi fin dall'inizio. Non vogliamo essere nulla di particolare, vogliamo essere soltanto noi stessi. Se non sai dove classificarci, vuol dire che abbiamo raggiunto il nostro scopo principale! Credo che adesso quasi tutti ci considerino un gruppo di world music. Finche' facciamo della musica che ci piace, che riteniamo importante fare, il pubblico si identifichera' in noi, e non avremo bisogno di preoccuparci delle etichette."

Cosa cercate di dire con la vostra musica?
"Non c'e' un vero messaggio. Cerchiamo piuttosto una risposta emotiva da parte del pubblico. Si puo' fare musica per diverse ragioni: esibire la propria abilita' tecnica, dimostrare una nuova teoria musicale, diffondere un messaggio socio-politico, esprimere le tue sensazioni personali... Noi vogliamo raggiungere la gente a un livello piu' emotivo, piu' subconscio, senza alcun progetto programmatico."

Quale consideri il vostro principale merito artistico?
"Quello di essere sempre rimasti fedeli a noi stessi, di essere rimasti puri nel nostro approccio all'arte, di suonare vera musica per vera gente, di tentare davvero di cominicare con i nostri ascoltatori. Nulla a che vedere con l'arricchirsi, vincere premi, o diventare delle star."

Qual'e' l'album che preferisci nella tua carriera?
"Shadowdance (ndr: del 1983 per la Windham Hill). Ma aggiungerei anche il mio disco solista, "From A Blue Planet" (ndr: pubblicato dalla Blue Castle).

Cosa pensi della scena musicale odierna?
"Non ne sono certamente entusiasta. Mi sembra tutto identico. La musica strumentale e' degenerata nella fusion piu' banale. Ha trionfato il minimo comun denominatore. Colpa delle radio e delle case discografiche, sempre alla ricerca del fenomeno di moda, dell'artista da sfruttare. Sento in circolazione molta musica cattiva, davvero cattiva."


John Serrie
(Copyright © 1993 New Sounds)

John Serrie e' da anni uno degli esponenti di punta della scuola "cosmica" della new age, quella che si rifa`, in maniera piu' o meno diretta, ai capolavori elettronici di Klaus Schulze e degli altri musicisti tedeschi che inventarono questo genere. Nelle sue opere il sintetizzatore e gli altri macchinari elettronici fungono da orchestra per lunghe e fluide sinfonie dedicate agli spazi intergalattici.

Da cosa ha origine la tua musica?
"Sono cresciuto nel Connecticut, in una famiglia e un ambiente di aviatori. Fin da quando iniziai a prendere lezioni di pianoforte a cinque anni, mentre mio padre era nella Marina, ho condotto una doppia esistenza: attratto dalla carriera militare da un lato e affascinato dalla musica dall'altro. A tredici anni presi la decisione di seguire la carriera musicale, e fu l'organo a canne, non il piano, a determinare quella scelta: con l'organo a canne puoi emettere piu' di un suono, esattamente come con il sintetizzatore. Passavo ore a sperimentare in chiesa. Pero' l'aviatore e' rimasto dentro di me. Durante il liceo suonai anche la chitarra in un complesso di rock and roll, ma al college, dal 1971 iniziai a studiare seriamente il sintetizzatore. Erano gli anni di Wendy Carlos. A vent'anni mi riusci' di essere assunto come compositore da un costruttore di strumenti elettronici che aveva sede vicino al college. Ebbi allora innumerevoli occasioni di sperimentare con questi strumenti. Finito il college, passavo le giornate a dimostrare i nostri modelli di synth ai clienti e le notti a suonare quegli stessi modelli nei nightclub di Hartford. Nel 1981 la societa' falli' e io mi trasferii ad Atlanta, dove vivo tuttora. Musicavo documentari per le corporation e come hobby scrivevo musica per il planetarium. Nel 1986 ci fu la svolta decisiva: venni coinvolto nella missione Shuttle che esplose. Avremmo dovuto mettere insieme qualcosa per le scuole. Rimasi molto scosso dall'incidente che tolse la vita a quella maestra e pensai che dovevo fare qualcosa per esprimere il mio dolore e per commemorarne la memoria. Nacque cosi' "And The Stars Go With You" (la cassetta del 1987), in cui volevo dire alla maestra che siamo con lei ovunque lei sia andata. Venni scoperto dalla Miramar, che era appena agli inizi. Fui il loro primo artista. Furono molto brani a crearmi un seguito attraverso negozi di new age in un circolo ristretto di appassionati del genere, ma formando le fondamenta per un pubblico piu' ampio."

Quel primo lavoro, riedito su album ed ora anche su cd, divenne presto un successo, ma il vero boom fu rappresentato da "Flightpath", tuttora considerato uno dei capolavori del genere.
"Non fu facile comporre una continuazione alla prima opera. Ci avevo messo dentro tutto cio' che sapevo di tecnologia musicale e tutte le mie emozioni. Presi allora il soggetto che preferivo, quello del "volo", e scrissi un intero disco attorno a quel tema, senza l'intensita' e la tragedia del primo, ma con maggior calma e consapevolezza di cosa stavo facendo."

Poi venne la svolta mistica...
"Si', nel frattempo studiavo molta religione indiana, e mi ero molto interessato al villaggio tibetano di Tingri, che aveva salvaguardato la cultura buddista dall'invasione cinese. Invece di fare musica buddista, decisi di trasformare la visione di quel villaggio in un fiaba romantica, quasi l'opposto di fare un viaggio nel cosmo."

"L'ultimo disco, "Planetary Chronicles: Volume 1", raccoglie musiche originariamente composte per gli spettacoli che da' nei planetarium (in gran parte sono musiche di un decennio fa).
"Il planetarium mi consente di condurre un minimo di sperimentazione e al tempo stesso restare vicino al mio primo amore, l'universo. CI saranno certamente altri volumi di questa musica."

"Tingri" usci' nel 1990. Sono tre anni che non scrivi nuova musica...
"Presto uscira' "Midsummer Century", un disco di materiale interamente nuovo, a parte un paio di cover (una canzone sentimentale di Jimmy Webb e la celebre sigla di Telstar). In questo disco ho voluto intrecciare due motivi: quello, immortale, dell'amore, e quella della fantascienza. Ho pertanto ambientato la mia storia d'amore in un futuro immaginario. Piu' precisamente si tratta di un passato immaginario, ma visto dal futuro: supponi di andare avanti di 10000 anni nel futuro, e poi di guardare indietro 4000 anni nel passato. Cio' che vedi sono delle rovine, esattamente come noi guardiamo indietro e vediamo le rovine egizie. Ma in questo caso le le rovine sono quelle di una civilta' 6000 anni piu' progredita di quella odierna, quindi rovine tecnologicamente molto avanzate. Ho deciso di essere personale, non visionario, e di raccontare la storia intima di due persone che vissero (o vivranno) in quelle rovine."

Quali consideri le maggiori influenze sul tuo stile?
"Da adolescente furono importanti gli sperimentatori di nastri ed elettronica, come John Cage e Milton Babbitt. Mozart sempre. Larry Fast (Synergy), gli EL&P per gli innovatori rock."

Vangelis, Schulze, i Tangerine Dream?
"Mi rendo conto che la mia musica e' simile alla loro, ma, credici o meno, li ascoltai per la prima volta soltanto nel 1974, quando gia' stavo sperimentando con gli stessi suoni senza averli mai ascoltati. Credo che a quei tempi esistesse una specie di mente di gruppo: tutti avevamo capito che i sintetizzatori analogici consentivano di fare delle nuove cose, e a tutti venne la stessa idea, e cosi' decidemmo di fare la stessa cosa, anche senza conoscerci."

Quale consideri il tema di fondo della tua opera?
"Voglio portare l'ascoltatore in un luogo insolito, in una galassia lontana, ma non voglio fargli provare paura, voglio farlo sentire a suo agio per tutta la durata del viaggio."

Sei in contatto con il resto della scena elettronica?
"Prima ero molto isolato, adesso ritengo che sia importante per me (e per tutti) ascoltare cio' che fanno gli altri, soprattutto dal punto di vista tecnico. Oggi non puoi piu' permetterti di vivere isolato: i cambiamenti di tecnologia richiedono un'attenzione continua alle novita'. Cose che erano di moda due anni fa adesso sembrano ridicole, devi stare molto attento. Degli altri musicisti elettronici stimo soprattutto Steve Roach, che a mio avviso ha creato uno stile estremamente personale ed esercita ormai un'influenza enorme su tutto l'ambiente; David Arkenstone, eccellente compositore e arrangiatore; Suzanne Ciani, una pittrice della musica; Yanni, che e' molto bravo a parlare alle masse."

Ambisci allo stesso successo di Yanni?
"No, la mia musica non funzionerebbe in un formato alla Phil Collins, e non credo che lo vorrei. La mia musica arriva da una profonda sensazione interna, c'e' un'integrita' morale che il mio pubblico esige, e che mi impegno a conservare fino all'ultimo respiro. In un certo senso la mia arte non e' soltanto mia: una volta che il master esce dallo studio di registrazione, non appartiene piu' a me, appartiene a tutta la gente la' fuori che la usera' per accompagnare le loro storie, storie vere, che io non sapro' mai. Ci sono tanti altri luoghi da visitare insieme!"


Pete Bardens
(Copyright © 1993 New Sounds)

Dopo tanti anni di successi e di innovazioni, Pete Bardens sta iniziando una nuova fase della sua carriera. Dopo essere stato con i Camel uno dei protagonisti del rock progressivo degli anni Settanta e dopo essere stato con i suoi dischi solisti degli anni Ottanta uno dei personaggi piu' in vista della new age, Bardens si appresta a ricominciare un'altra volta da zero.
"Si', ho lasciato la vecchia casa discografica e ne sto cercando una nuova. Per prima cosa, pero', pubblichero' da "indipendente" una raccolta di brani degli ultimi quattro o cinque anni che, per una ragione o per l'altra, erano rimasti esclusi dai miei ultimi dischi. In gran parte si tratta di pezzi importanti, che non armonizzavano con l'umore del resto del disco e pertanto dovettero essere scartati. Sorprendentemente, mettendoli insieme ho scoperto che, pur risalendo ad anni diversi, formano un tutto unico, coesivo. Se non altro, dimostra che nella mia musica c'e' qualcosa che rimane sempre, al di la' degli esperimenti che tento di quando in quando."

Come si intitolera'?
"Si Intitolera' "Big Sky", e dovrebbe uscire fra due/tre mesi. Per il futuro molto dipendera' da come quest'album viene accolto. E' strano che uno affidi le sorti della sua carriera a un album nato quasi per caso, ma non e' la prima volta per me. Ho molte ambizioni: sto scrivendo le musiche per un disco che sara' il piu' difficile e concettuale della mia vita, e al tempo stesso segnera' un ritorno al mio stile "progressivo". Dopo aver registrato un album cosi' pop come "Further Than You Know", che non era proprio il piu' adatto per la mia personalita', troppo cantato e troppo scontato, sento il bisogno di tornare alle mie origini, alle cose che so fare meglio. Penso anche di utilizzare un'orchestrazione piu' sofisticata. Ormai sono maturato sul piano compositivo al punto di potermi permettere questi lussi! E d'altronde ai tempi dei Camel registrammo un disco con un'orchestra sinfonica. Non sono un novellino sul fronte degli arrangiamenti complessi! A rimetterci sara' il canto, per il quale oggi mi sento meno portato. Negli ultimi anni ho provato diverse strade, adesso voglio tornare alla mia vera vocazione."

Un futuro quindi piu' rock?
"Precisamente. Piu' forti nei suoni della chitarra e delle tastiere, con le percussioni in primo piano. Non rumoroso, perche' quello non e' mai stato il mio genere. Ma vorrei che il mio sound riflettesse il sound di un complesso che sta suonando dal vivo, non quello artificioso delle macchine dello studio di registrazione. Vorrei che avesse quel tocco personale, unico, umano che viene dall'artista, da me; non il marchio di fabbrica un po' generico che si ottiene quando si manipola troppo il mix. Penso anche di focalizzarmi su lavori piu' unitari, che ruotano attorno a un tema principale."

Come successe con "White Magic?"
"Non proprio. White Magic nacque quattro o cinque anni fa come la colonna sonora di questo film sullo sci. Naturalmente ne venne fuori un album molto diverso dagli altri album che ho fatto nella mia carriera. Il suo pregio maggiore e' quello di essere ben orchestrato, suonato da collaboratori di grande valore. Ricordo che impiegammo tre mesi per realizzare la partitura. In realta' guardammo poco o nulla il film che dovevamo accompagnare. Potrei quasi dire che la musica segue l'azione del film quasi per caso. Anzi, fummo fortunati nel senso che quel film non aveva una trama, era soltanto un film su sciatori acrobati. Per cui una suite atmosferica come White Magic andava benissimo."

Cosa ascolta oggi?
"Oggi, secondo me, e' difficile decidere cosa ascoltare, non c'e' molto in circolazione da ascoltare per uno come me. So che negli USA c'e' un piccolo revival del "progressive-rock", ma mi sembra limitato a piccole, volenterose etichette. So che i traffic si sono riformati e che Dave Mason si e' unito ai Fleetwood Mac, segno che nel pubblico l'interesse non e' mai svanito. Personalmente credo che sia difficile rimettere insieme un gruppo dopo vent'anni, credo che le probabilita' di ottenere buoni risultati siano molto basse. L'esperienza insegna. Insomma, per una ragione o per l'altra, non trovo molto da ascoltare."


William Ackerman
(Copyright © 1993 New Sounds)

Conversiamo con William Ackerman, il chitarrista che negli anni Settanta lancio' con la sua etichetta Windham Hill un nuovo sound e un nuovo modo di concepire la chitarra acustica. Da qualche anno Ackerman e' lontano dalle scene musicali, ma rimane un personaggio influente, a cui devono la loro fortuna molti dei nomi piu' prestigiosi di oggi.

Come e perche' decidesti di diventare un chitarrista?
"La mia piu' grande fortuna e' quella di essere completamente ignorante di musica: non so assolutamente ne' leggere ne' scrivere la musica. In tutta la mia vita ho preso soltanto una lezione di chitarra, nel 1971; anzi, mezza lezione, perche' arrivai in ritardo. L'insegnante era Robbie Basho, che sarebbe comunque diventato un mio intimo amico. Ecco, semmai Robbie Basho e' stato influente, a livello individuale, perche' un giorno mi diede tre consigli, che ancora oggi costituiscono le fondamenta del mio pensiero musicale: 1. suona la chitarra appoggiandola sul ginocchio sinistro; 2. non aver paura di suonare cio' che ti viene in mente di suonare; 3. se non puoi cantarla, non e' una melodia. Quest'ultima e' forse la piu' importante dal punto di vista pratico: lo scopo della musica e' di convogliare emozioni complesse, che non sarebbe possibile esprimere a parole. La musica e' la piu' grande metafora che la civilta' umana abbia inventato. E siccome la melodia e' il modo in cui catturiamo un'emozione sotto forma di suoni, la musica deve essere soprattutto melodia. Cio' che Basho mi voleva dire e': dev'essere la tua voce a dire alle tue dite cio' che devono fare. Per quella prima lezione pagai 22 dollari. Fine della mia educazione musicale."

Ma allora come inizio' la tua carriera professionale?
"Quando caddi dal tetto".

Come?
"Ero studente alla prestigiosa universita' di Stanford. Mio padre era uno dei professori di quell'aristocratica istituzione californiana e io ero cresciuto praticamente nell'accademia. Era quasi scontato che io avrei seguito le orme di mio padre. Studiai prima inglese e poi storia, ma non riuscivo ad adattarmi all'idea che quello fosse il futuro della mia vita. Un giorno dell'ultimo anno mi resi conto che stavo studiando per diventare cio' che mio padre voleva che io diventassi, non cio' che io avevo deciso di diventare. Cosi' me ne andai e decisi di darmi all'edilizia. Fondai la Windham Hill Builders (ti dice nulla il nome?). Ma un giorno d'inverno, mentre stavo in bilico su un tetto con un enorme pezzo di legno in mano, il vento mi butto' giu'. Naturalmente mi infortunai e per la prima volta in vita mia dovetti restare fermo per un po'. Alcuni amici dell'universita' che avevano studiato teatro vennero a chiedermi di scrivere le musiche per i lavori che cominciavano finalmente a realizzare. Cio' mi costrinse a scrivere dei pezzi musicali e poi ad eseguirli davanti a un pubblico."

Ma perche' proprio la chitarra, piuttosto che il pianoforte?
"In effetti da bambino avevo preso qualche lezione di pianoforte, ma ero obbligato a studiarlo e pertanto non mi divertiva. La chitarra ha un grande pregio: te la puoi portare appresso. Il pianoforte no. E poi a dodici anni ebbi la rivelazione della mia vita: ero innamorato di questa ragazzina che pero' non guardava nessuno; poi un giorno scopersi che si era messa con un ragazzo un po' piu' anziano che suonava la chitarra in un complessino di rock and roll. Allora compresi cosa dovevo fare per essere amato e per la prima volta imbracciai una chitarra..."

Quindi il tuo stile chitarristico ha origine dall'ignoranza?
"Esatto. Come sai, lavoro quasi esclusivamente con questo tipo di accordatura "aperta". Ebbene, questo "tuning" e' cosi' unico che un amico colto un giorno mi ha detto: "se tu avessi studiato teoria di composizione, non potresti usare accordature di quel tipo perche' te ne vergogneresti". La mia ignoranza e' la mia forza. Non essendo condizionato da nessuna teoria su come si debba suonare una chitarra acustica, cerco semplicemente l'accordatura che meglio riflette il mio umore, che meglio fa risuonare le corde con il mio stato d'animo. L'improvvisazione e' chiaramente un fattore importante, ma attento: stiamo parlando di improvvisazione nel momento in cui compongo la musica, non quando la suono. Quando la suono, la musica e' rigorosamente predefinita. E' quando la concepisco che lascio la massima liberta' alle mie dita. Quando inizio a scrivere un nuovo pezzo, non so mai quale accordatura e quale melodia finiro' per utilizzare. Naturalmente lo svantaggio di questo metodo e' che dipendo completamente dalla Musa, non potrei mai scrivere un pezzo teorico o un pezzo su commissione."

Le tue principali influenze?
"Comincerei da Eric Satie. Quando lo ascoltai per la prima volta, mi sentii come uno straniero che vive in un paese in cui tutti parlano una lingua che lui non capisci e improvvisamente incontri uno che parla la sua lingua. Ricordo che comprai tutti e sei i volumi di Aldo Ciccolini e rimasi affascinato dalla purezza assoluta di quelle composizioni: non c'e' una sola nota che non abbia bisogno di essere dov'e', e' quasi zen. In effetti pochi lo sanno ma il celebre disco di George Winston non fu il primo disco di pianoforte della Windham Hill: il primo fu proprio un'antologia di lavodi di Satie. Non e' giusto, secondo me, che Debussy, Ravel e altri suoi contemporanei siano sempre stati piu' famosi di lui soltanto perche' furono meno rigorosamente coerenti e meno originali. Quel disco di musiche di Satie, per la cronaca, divenne un best seller in Giappone, dove supero' il mezzo milione di copie."

Chi altri?
"Poi metterei John Fahey, che ha interpretato la musica folk tradizionale lasciandovi un'impronta molto personale. E' stato lui forse il primo ad adottare un "tuning" aperto nella musica per chitarra acustica. Ci insegno' che puoi prendere forme pre-esistenti e trasformarle in maniera originale. Tecnicamente pero' non ho preso molto da lui (forse il "picking" sincopato), mentre ho appreso molto da Basho. Basho voleva inventare una disciplina classica per la chitarra acustica, e lo fece partendo dalla musica indiana. Fu un tentativo molto ambizioso, che ha avuto un'influenza enorme su tutti i chitarristi acustici degli ultimi vent'anni. Nella mia musica ascolti ancora il picking in 4/4 di Basho, e quella propensione per emulare la colorazione tonale e i "drone" della musica indiana. Credo poi pochi altri abbiano contribuito tanto al progresso dell'arte della chitarra. Basho rimase all'avanguardia finche' arrivarono Alex Degrassi e soprattutto Michael Hedges, uno dei piu' grandi innovatori dello strumento di sempre. DImenticavo: fra le maggior influenze metterei anche Dave Guard del Kingston Trio, il gruppo che negli anni Cinquanta diere inizio al folk revival. Imparai da lui come devi suonare per il pubblico. E' morto un anno fa e ho voluto ricordarlo passando un weekend ad ascoltare tutte le sue registrazioni. Mi sono allora reso conto di quanto abbia pesato il suo lavoro su di me."

Ma William Ackerman cosa ha aggiunto di suo?
"Cio' che io ho portato e' poco e tanto al tempo stesso. Sono un anello nella catena di innovazioni tecniche di questo quarantennio, e certamente un anello che segue l'impostazione "classica" di Basho. Poi come produttore ho scoperto molti dei geni che sono andati anche oltre Basho e me, e di questo sono molto orgoglioso. Senza quel mio lavoro non so se oggi la chitarra sarebbe lo stesso strumento che e'."

Al di fuori della musica popolare chi consideri importante?
"Domanda difficile ed imbarazzante per me. Non ascolto molta musica classica, sono veramente molto ignorante. Ti diro' di piu': non mi piace per nulla la chitarra del jazz. I musicisti jazz antepongono spesso la tecnica all'emozione, mentre per me la musica e' soltanto emozione, e la tecnica non c'entra molto. Non mi interessa assolutamente nulla quanto veloce un chitarrista possa essere, non so cosa farmene. Mi interessa se ha qualcosa da dire. Ammiro Ry Cooder, che secondo me non ha la piu' pallida idea di cosa siano le note. Mark Knopfler (Dire Straits) e' Dio, l'unico che mi faccia piangere quando lo ascolto. Ti regalo anche un'anteprima: Buckethead e' un chitarrista di San Francisco che e' destinato a diventare una leggenda della chitarra. Nessuno suona come lui: ha lo stile ultrasonico del punkrock, ma all'improvviso e' capace di tirarti fuori la piu' lineare delle melodie in cima a tutto quel fracasso epilettico; e' un ragazzo di soli ventun anni, un genio della chitarra."

Dove sta andando la tecnica chitarristica?
"Non so dove stia andando, so dove non sta andando. Mi sembra che ogni movimento musicale duri poche stagioni, e che adesso abbiamo anche esaurito i movimenti. Forse era inevitabile che l'evoluzione enorme della chitarra di questo stralcio di Novecente non potesse durare all'infinito. Non ho sentito molti chitarristi originali negli ultimi cinque anni. Tutti cercano di suonare come i Led Zeppelin e il risultato e' che nessuno sa fare nient'altro."

Se tu dovessi dare a un ragazzo un consiglio, come Basho fece con te, cosa gli diresti?
"Sono stato in questo business abbastanza a lungo, e, senza voler sembrare naif, lo incoraggerei davvero a trovare la sua vera voce, lo scoraggerei decisamente dal cercare di imitare soltanto i suoi idoli. E poi gili ricorderei che la musica e' innanzitutto melodia. Ma forse no, non gli direi nulla di tutto questo. Qualche giorno fa una ragazza mi ha avvicinato e mi ha detto di essere rimasta veramente commossa dalla mia musica, e che pertanto dovevo essere un filosofo o un saggio o che so, e mi ha chiesto di dirle qualcosa di importante. Le ho risposto: "cambia calze ogni giorno". Non mi chiedere cosa vuol dire, lascia che sia il lettore a capirlo."

Adesso di cosa ti occupi?
"Ho formato la Gang Of Seven, che vende linguaggio invece che musica. Abbiamo registrato diverse cassette e CD (e anche un video recentemente) di storie raccontate da diversi personaggi. Mi sento un po' come agli inizi della Windham Hill, quando non riuscivo a descrivere cosa fosse la nostra musica, ma riuscivo molto bene a descrivere cosa "non" era. Cosi' oggi: posso dirti cosa "non" facciamo, per esempio, che non facciamo musica, ma e' difficile spiegarti cosa ho in mente. I personaggi che raccontano storie sono spesso degli sconosciuti, della gente normale che ho incontrato in qualche paesino sperduto. Raccontano storie che presumo siano vere, storie in prima persona. Sono monologhi liberi. Il programma di Henry Rollins e' forse la cosa piu' simile che ci sia negli USA. Adesso forse MTV trasmettera' il nostro video e spero che questo crei un pubblico piu' ampio. Alcuni dei miei "speaker" hanno un passato alla radio, nel cabaret, nel teatro, nella poesia, ma sono soprattutto persone naturali."

E la tua musica?
"Non ho abbandonato la musica. Ma ho passato 17 anni a dirigere la Windham Hill e la societa' stava diventando troppo "corporation" per i miei gusti. Non era l'ambiente per me. Avevo bisogno di nuovi stimoli. A dire il vero la Gang Of Seven era nata originariamente come una sotto-etichetta della Windham Hill. Poi ci ho ripensato e ho venduto la mia quota di Windham Hill alla BMG per fondare la Gang Of Seven come societa' interamente mia. Continuo comunque a lavorare come produttore per la Windham Hill, e ho in mente di fare il produttore anche per altre case discografiche. Anzi proprio in questi giorni sto allestendo il mio studio di registrazione personale, nel Vermont. Si tratta di uno studio interamente digitale, uno dei piu' sofisticati al mondo. Per quanto riguarda le mie composizioni, da quando ho lasciato la Windham Hill ho finalmente avuto il tempo di comporre di piu', e credo di avere almeno cinque pezzi di ottima qualita', forse i migliori della mia carriera. Spero di avere un nuovo disco pronto per la fine dell'anno. Rispetto al passato mi sforzo di piu' di scrivere melodie e non soltanto sequenze di accordi. Una delle composizioni si intitola "The Lion In The Sky" ed e' una ninnananna per bambini che pero' introduce degli accordi complessi in chiave minore. Per me e' un brano molto emotivo, e spero che servira' da manifesto per la mia nuova stagione creativa".


Michael Gettel
(Copyright © 1993 New Sounds)

Michael Gettel, pianista e "synthman", e' diventato rapidamente uno dei nomi di punta della new age. Ad imporlo era stata sette anni fa la "San Juan Suite" per solo pianoforte, ma in seguito Gettel si e' progressivamente avventurato nella musica per piccolo ensemble, ottenendo risultati che sono al tempo stesso lirici e spettacolari. L'ultimo lavoro si intitola "Skywatching" ed e' stato da poco pubblicato dalla Narada.

Gettel inizio' come enfant prodige, come racconta lui stesso:
"Sono nato a Evergreen, nel Colorado, vicino a Denver. Iniziai a suonare da piccolo (a tredici anni entrai a far parte come trombettista della Symphony Orchestra dello stato). A sedici anni i miei genitori mi regalarono un pianoforte a coda, il piu' bel regalo della mia vita. Dopo essermi laureato alla University of Northern Colorado, iniziai ad insegnare. Dal 1981 al 1987 insegnai in Colorado, e fu li' che composi e registrai i primi due dischi. Nel 1988 mi venne offerto un posto per insegnare a Seattle e da allora mi sono trasferito qui. I posti dove ho abitato hanno avuto un'importanza enorme per la mia musica. Direi che i paesaggi, e l'atmosfera che vi si respira, sono una delle tre fonti di ispirazione principali, insieme alle relazioni personali (amici e famiglia) e alle leggende popolari."

In che modo influenzano la tua musica?
"I paesaggi sono il tramite piu' diretto con la mia spiritualita', che certamente traspare dalla mia musica. Direi che la spiritualita' e' il cuore della mia musica. E non a caso il cuore strumentale e' il pianoforte, che per le mie composizioni e' un po' come il battito cardiaco, il punto in cui senti le emozioni piu' forti. Il paesaggio ha per me qualcosa di speciale, come se guardandolo, concentrandomi su di esso, io riuscissi a vedere e sentire le migliaia di persone che lo hanno popolato fin dall'antichita'. Cio' e' vero soprattutto per le rovine, come quelle degli indiani che hanno ispirato il nuovo disco. Le zone del nostro Sudovest erano abitate da tribu' miti e socievoli di indiani, che avevano un contatto particolarmente profondo e intimo con la natura, le piante, le stelle. Questo tipo di contatto indiretto con civilta' estinte mi puo' venire in qualsiasi posto in cui il paesaggio trasudi storia."

Cos'ha di speciale il pianoforte?
"E' lo strumento che ti consente di esprimerti meglio. Per me ha un valore particolare perche' e' il veicolo che mi ha aiutato ad attraversare momenti difficili della mia esistenza. E' stato un po' il sostituto dell'amico del cuore, un compagno con cui aprirti senza paura di essere respinto. In origine io suonavo la tromba, ma la tromba non ti consente la stessa liberta' espressiva. E' uno strumento "verticale", che consente di fare molto bene certe cose, ma soltanto quelle. Il pianoforte e' "orizzontale" in quanto consente di fare un po' di tutto. Per esempio, prova a comporre con la tromba: e' molto difficile. Diventando vecchio, il pianoforte e' diventato ancora piu' importante."

Come definiresti il tuo stile al pianoforte?
"Non ho delle vere influenze dirette. Anzi, ti confesso una cosa che non ho mai rivelato a nessun giornalista: ho sempre sognato di suonare la chitarra, e questo desiderio di suonare come un chitarrista ha finito per determinare il mio stile al pianoforte. Mi piacciono molto gli impressionisti francesi, i musicisti della ECM (ma non sono pianisti) come Metheny, Towner, Weber, nonche' i minimalists (Reich, Glass) e naturalmente Steve Roach; ma nessuno di questi mi ha influenzato direttamente. Il brano "First Snow" e' tipico del mio stile: tutt'altro che banale, ma incredibilmente semplice e melodico. Ho certamente molte radici nel jazz. La new age in fondo e' una sottocategoria del jazz, un'estensione del jazz; esattamente come, per esempio, l'heavymetal e' rock. Io non faccio eccezione".

Qual'e' la canzone di questo disco a cui sei emotivamente piu' legata?
"L'intero album e' stato cosi' divertante da fare ed e' cosi' emotivo che non saprei rispondere... forse Sacred Site... poi non credo che un brano valga soltanto per come e' stato scritto. La musica richiede sempre un gioco fra l'autore e l'ascoltatore: il primo puo' soltanto fare una parte del lavoro, il resto la deve contribuire l'ascoltatore, che deve essere disposto a seguirlo nella sua "finzione" romantica."

Di cosa parlano le tue composizioni?
"Di nulla e di tutto. Non c'e' un messaggio preciso. Voglio catturare la sensazione dentro il paesaggio e lasciare che quella sensazione si propaghi verso l'ascoltatore. Poi ciascun ascoltatore aggiungera' le sue sensazioni. Spero soltanto che le mie musiche abbiano effetti positivi sul pubblico, ma non vorrei specificare un effetto particolare."

Pensi che sia in corso un'evoluzione nella tua musica?
"Certamente. Il primo e' per solo pianoforte. Adesso mi posso permettere degli ensemble complicati. In ogni disco voglio sorprendere l'ascoltatore. Non ti dico come sara' il prossimo, ma sara' di nuovo diverso. Una sinfonia? Chissa'... Credo che in ogni disco, pero', io offra una costante: una qualita' tecnica, che pochi musicisti new age possono offrire. Le mie musiche sono semplici e liriche, ma senza sacrificare la tecnica. Nel corso degli anni ho sviluppato una certa abilita' nell'orchestrare e nel produrre la mia musica che mi mancava agli inizi. Il nuovo elemento di questo disco? Direi un elemento di rock, a partire dai ritmi piu' pronunciati."

Dove trovi i musicisti che collaborano ai tuoi album?
"Sono amici. Come ti dicevo, l'amicizia e' uno dei fattori principali. I miei amici sono felici di suonare con me e io di suonare con loro. Insieme lavoriamo a perfezionare le mie musiche."

Cosa ascolti oggi?
"Tutto, eccetto il country & western. Ascolto molto il rock di Seattle: Pearl Jam, Soundgarten, Nirvana. Gli U2 sono il mio gruppo rock preferito. E naturalmente ascolto molto jazz. Dimenticavo: le grandi cantanti, come Joni Mitchell, Rickie Lee Jones, ... Musica con il cuore, con tanto cuore. La musica e' innanzitutto passione!"


Steve Roach
(Copyright © 1993 New Sounds)

Steve Roach e' uno dei maestri della new age elettronica; e opere monumentali come "Dreamtime Return" e "World's Edge" lo hanno consacrato ai vertici della musica moderna. Recentemente e' tornato alla ribalta con l'album "Origins". Lo intervistiamo nella sua casa dell'Arizona, dove vive quotidianamente immerso nel paesaggio apocalittico del deserto.

Cosa rappresenta per te il nuovo disco?
"E' il naturale punto di arrivo dopo Dreamtime Return, World's Edge e tutto cio' che ho fatto in passato. E' un album importante per me in quanto per la prima volta i sintetizzatori non sono il fulcro principale della musica: uso molti strumenti acustici e percussioni, e sono loro a dominare le armonie. E' a partire da quanto che produssi il disco di David Hudson in Australia che ho cercato di apprendere a suonare il didjeridu: all'inizio mi accontavo di fare dei sampling del suo timbro, ma adesso so finalmente suonare dei motivi interi. Il disco contiene sei brani, il piu' lungo dei quali dura diciannove minuti, ma per quanto mi riguarda costituisce una suite unica: non ha molto senso ascoltare le sei sezioni in ordine diverso da come sono state sistemate sul CD. Perderesti gran parte dell'impatto emotivo, in quanto ogni brano e' stato progettato per preparare l'acoltatore all'ascolto del successivo."

Il titolo a cosa si riferisce?
"Come sempre, cerco di entrare in contatto con le origini dell'uomo, e in particolare con l'impulso umano per creare musica, per esprimersi attraverso suoni, per trascendere i limiti del proprio essere, del proprio linguaggio. Per andare oltre. Ritrovare le proprie origini per scoprire cosa c'e' oltre quelle origini, oltre la nostra dimensione. Il timbro del didjeriddu ha influito molto su questa fase: lo strumento genera dentro di me stati di consapevolezza molto intensi, in parte per il tipo di respirazione che devi adottare, in parte per la concentrazione fisica che richiede, in parte per le vibrazioni che provoca nel mio corpo, in parte per il modo in cui sembra aprire il mio sistema di respirazione. Produce suoni che sembrano appartenere a un linguaggio umano, soltanto che non riesci a decifrarli, ma la complessita' e la comunicativita' sono pari, se non superiori, a quelli di una lingua umana."

Quanto e' ancora importante l'improvvisazione nella tua musica di oggi?
"Ha un'importanza incommensurabile. E' l'unico modo in cui posso esprimere questa forma di musica, che non puo' essere strutturata in pezzi ben definiti. E' una musica fortemente istintiva. Per esempio, non ho dovuto dire a nessuno dei musicisti cosa dovevano suonare e cosa significava: abbiamo suonato e basta. Direi che l'abilita' di riuscire a "vedere" la musica prima di suonarla, mentre la sto suonando, e' aumentata nel corso degli anni, ma le fondametna sono sempre le stesse. Non credo che apparterro' mai al genere di nusicista che deve programmare attentamente la propria musica prima di suonarla."

Quanto e' importante invece l'elettronica oggi per te?
"Le apparecchiature sono sempre importanti e determinano piu' che mai il risultato finale, fosse anche solo perche' oggi c'e' cosi' tanta scelta. Ritengo certamente cruciale gestire le sottigliezze del processo di registrazione: il trasferimento della musica che suono ai master finali puo' avvenire in molti modi e puo' cambiare parecchio come la musica verra' percepita dal pubblico. Pero' sto anche raccogliendo una massa enorme di strumenti acustici nei miei viaggi, e questo e' un segno che non e' un fatto di apparecchiature ma di suono. Direi anzi che prima mi accontentavo di un sampling dello strumento, mentre oggi voglio davvero sentire la sua voce, sentire un intero discorso."

A cosa stai lavorando in questi giorni?
"Molte cose in parallelo. Ho registrato un nuovo album con Suspended Memories. Ne ho registrato un altro con Solitaire in Germania. Sono stato chiamato a comporre la colonna sonora di "Ratanui", un film prodotto da Jim Wilson e Kevin Costner, diretto da Kevin Reynolds e dedicato all'Isola di Pasqua (Rapanui e' il nome indigeno dell'isola). Sta per uscire per la Rubicon una raccolta di brani inediti, di "scarti" degli album precedenti. Molti datano dalle sessioni di "Dreamtime Return". Sono riuscito a ricostruirli e ad aggregarli in un'opera compiuta."

Come spieghi questo tuo amore per le civilta' antiche e lontane?
"In parte direi che non sono ne' antiche ne' lontane, sono anzi civine e moderne... nel senso che esiste una qualche relazione fra quei paesaggi e il paesaggio drammatico del Sudovest dove vivo. Entrambi ti mettono al cospetto del destino universale, dell'effimero attimo in cui viviamo, della insignificante parte giocata nell'universo. Dall'altro questi sono luoghi sacri ante-litteram, sono luoghi creati con l'atto di creazione piu' grande che sia mai stato compiuto, quello di creare il mondo, e pertanto ti connettono con lo spirito di quell'atto, piu' di quanto lo possa fare una cattedrale o qualsiasi altra opera umana. Quei posti racchiudono conoscenze che noi non abbiamo piu'."

Credi in Dio?
"Credo in una forza creativa che e' molto piu' grande di cio' che noi possiamo concepire, comprendere, immaginare. Non abbiamo un cervello grande abbastanza per pensarla. Ogni dio che abbiamo inventato e' soltanto un'approssimazione del vero dio. Non e' possibile mettere quella forza in una forma umana, in parole, in descrizioni. Nemmeno in suoni. Ma la musica piu' aiutarci a intuire qualcosa che va oltre la nostra natura..."


David Lanz
(Copyright © 1993 New Sounds)

Il pianista David Lanz e' una delle voci piu' "colte" della new age. I suoi dischi, soprattutto quelli solisti, hanno creato uno stile inconfondibile che vanta oggi decine di imitatori. Con il chitarrista Paul Speer ha registrato tre dischi (l'ultimo in uscita in questi giorni) in cui la sua arte di fine compositore si sposa alle doti di arrangiatore del partner, suo vecchio amico e collaboratore, oltre che autore in proprio.

Quando comincio' a suonare?
"Cominciai da piccolo. Avevo quattro anni quando presi le prime lezioni di musica. A dieci anni ero gia' frustrato dalla musica classica e dal pianoforte a coda. Venni corrotto dalla musica rock e a tredici anni avevo gia' un mio complessino, con cui suonavo in giro per la mia citta', Seattle. Sentivo che la musica sarebbe stata la mia vita, anche se non sapevo ancora quale genere di musica mi avrebbe consentito al tempo stesso di guadagnarmi da vivere e di esprimere il mio io artistico. Credo di essere sempre stato un filosofo dell'arte, nel senso che ho una mia fisolofia della vita che tento di sposare a un'arte; solo che agli inizi non sapevo quale fosse questa mia filosofia, e naturalmente con il passare degli anni tutto si e' fatto piu' chiaro e oggi ne posso parlare. Ma sono convinto che era gia' presente agli inizi. Negli anni Settanta suonavo moltissimo, ma francamente era soprattutto per sopravvivere: suonavo per lo piu' nei night club e per musica su commissione (pubblicita'). Certo non ero molto soddisfatto di suonare in quel modo. Poi scopersi la meditazione. Sono sempre stato un tipo molto introspettivo e cominciai a vedere nella mia musica un mezzo per aiutare la gente ad essere altrettanto introspettiva, in contrasto con, per esempio, tutta la musica che e' concepita soltanto per ballare. Decisi cosi' di registrare musica per solo pianoforte. Fui il primo a sorprendermi quando i miei amici, i negozianti e infine i talent scout mostrarono un forte interesse per quei nastri. Ma il fatto che tutti si eccitassero cosi' facilmente mi fece intuire che avevo trovato una miniera ancora inesplorata. Di colpo mi trovai ad essere uno degli artisti piu' famosi di una nuova corrente."

Negli ultimi anni ha cercato di andare anche oltre, con opere piu' ambiziose...
"Certo, ho sperimentato l'arrangiamento orchestrale, credo in qualche modo influenzato dai miei idoli di trent'anni fa, Procol Harum e Moody Blues. Inevitabilmente quelle partiture mi hanno portato ad arrangiamenti piu' intricati. E' un aspetto della mia carriera che vorrei continuare a sviluppare, ma in parallelo, senza sacrificare il filone principale, che rimane quello della musica piu' sempice dei miei dischi solisti."

E l'album nuovo?
"Il nuovo album e' un misto di tutte queste influenze: quella contemplativa dei dischi solisti e quella sinfonica delle mie danze orchestrali. Speer e io lavoriamo insieme da circa dieci anni, lui e' il mio produttore e abbiamo inciso due album insieme. Credo che con questo nuovo disco abbiamo raggiunto la perfezione nel modo di suonare chitarra e piano armoniosamente."

Le sue influenze principali?
"Senz'altro i pianisti classici (Beethoven, Debussy, Chopin, soprattutto Ravel) e quelli jazz. Un periodo che mi affascina particolarmente e' quello dell'impressionismo, quando la musica inizio' ad essere un po' meno strutturato, a lasciarsi andare, e le armonie si riempirono di colori. D'altro canto devo riconoscere l'influenza di "songwriter" della musica pop, artisti come John Lennon o Donald Fagen o Bob Dylan."

Prossimi progetti?
"Per adesso sono troppo impegnato con l'organizzazione del nostro prossimo tour. Stiamo assumendo un complesso per eseguire dal vivo una sorta di retrospettiva della mia opera. Pertanto devo ri-arrangiare tanti miei brani del passato e del presente."

Cosa ascolta oggi?
"Ascolto molto me stesso! Come dicevo, devo ascoltare tutti i miei dischi per selezionare e arrangiare i brani del tour. Ascolto musica alla radio, jazz e classica abbastanza a caso, non ho preferenze. Pero' voglio citare almeno john serrie: e' un amico ed e' uno dei pochi musicisti che mi ispirano."


Paul Speer
(Copyright © 1993 New Sounds)

Come vi siete conosciuti tu e David Lanz?
"Ci siamo conosciuti nel 1980, nello studio di registrazione di Seattle in cui io lavoravo come ignegnere del suono e lui lavorava come compositore delle musiche. Era il modo in cui ci guadagnavamo da vivere in quei giorni. Capii subito che c'era del talento nel mio partner e sapevo di gente che voleva colonne sonore. Pensai cosi' che David e io potessimo metterci in societa' e combinare qualcosa di buono. Fini' che David si mise a registrare dischi e nel 1983 mi ci provai anch'io. Lui divenne un musicista famoso e io il suo produttore."

Come funziona la vostra collaborazione?
"Lui e' piu' prolifico come compositore. In tutti i tre dischi che abbiamo registrato insieme ho scritto soltanto due brani. Invece tutti i dischi, nostri e solisti di David, sono stati prodotti interamente da me. Quindi i ruoli sono abbastanza ben definiti. Io influenzo le sue composizioni per il semplice fatto che suono la chitarra, e pertanto lui e' costretto a tenerne conto nelle sue partiture. Da parte mia concepisco il mio contributo come un modo di esaltare le sue melodie. Se ascolti i miei dischi solisti e poi ascolti i suoi, non potresti mai immaginare che noi siamo compatibili: io sono molto piu' influenzato dal rock, sono molto piu' aggressivo, mentre lui e' piu' dolce e contemplativo. Ma quando suono per lui, cerco di conservare il suo stile e di aumentarne l'effetto con la chitarra, e pertanto sono io principalmente ad assecondare lui. Anche in questo io tendo ad essere piu' produttore che musicista."

Influenze?
"Soprattutto Jeff Beck e Jimi Hendrix. Non sentirai mai quelle influenze nel mio stile, ma loro sono quelli che mi ispirano quotidianamente. La loro musica passa attraverso di me e diventa qualcos'altro, ma arriva sempre da loro. Ascolto anche molta musica orchestrale, musica classica e d'avanguardia (Stravinsky). Ma vale lo stesso discorso: se ti dicessi dove abbiamo usato Stravinsky, non ci crederesti, perche' adesso e' irriconoscibile, e' stato filtrato dalla nostra personalita'.

Progetti futuri?
"Penso che lavorero' sempre piu' come produttore, in particolare per la Miramar (di cui sono co-proprietario con Lanz ed altri). Forse arrivera' anche un altro album solista, ma non ho intenzione di scrivere le musiche prima di essere pronto ad entrare in studio. Sono abituato a comporre suonando, cioe' vado nello studio e comincio a suonare perfezionando il materiale giorno dopo giorno, in gran parte improvvisando. A differenza di David la mia musica nasce da concetti, invece che melodie."


Michael Jones
(Copyright © 1993 New Sounds)


"Sono nato nel 1942 in Inghilterra. I miei genitori erano canadesi. ma si trovavano in Europa per via della guerra. Mia madre lavorava in un ospedale e rientro in patria l'anno dopo. Mio padre invece sarebbe rimasto al fronte fino alla fine della guerra. Della guerra non ricordo nulla. a dire il vero. I miei ricordi iniziano da quando avevo due o tre anni: fu allora che una zia prese a issarmi sullo sgabello del suo pianoforte e a lasciarmi giocare con i tasti. Imparai cosi, imitando lei e sperimentando come fanno i bambini con i lore giocattolL La cosa che mi incuriosiva di piu era il miracolo di questo pezzo di legno che emetteva del suoni: da dove venivano quei suoni? Un giorno vidi degli animali dipinti sullo spartito che la zia usava per suonare e ne dedussi, con la fantasia tipica di quell'eta, che ci fossero degli animali dentro il piano. Per me suonare il piano divenne allora anche un mode per entrare in contatto con gli animali che vi si nascondevano, penetrare cioe in quel mondo misterioso, come Alice nel Paese delle Meraviglie. Soltanto a otto anni iniziai a prendere lezioni formalL Avrei continuato a studiare musica per quindici anni, fino al secondo anno di universita. Mi laureai nel 1966 in Musica e Psicologia. Da un lato conducevo una vita di assistente sociale, dall'altro passavo ie sere e i week-end a comporre musica. Ero ancora un improvvisatore musicale. fedele al mio rapporto originale con lo stru-mento. Avevo semplicemente imparato che non si trattav^ di interagire con del folletti nascosti dentro il piano, ma con la natura. Ricordo che un giorno il maestro, invece di "suonami questo brano di Schumann", mi disse "suona la pioggia": io mi sforzai di imitare il suono della pioggia e ie sensazioni che mi ispirava la pioggia, e mi resi conto che era persino piu facile che suonare Schumann! Tutta quella scuola mi aveva fatto dimenticare come si fa ad entrare in comunione con la natura tramite uno strumento musicale, mi aveva fatto perdere di vista Faspetto romantico della musica. Decisi allora di continuare ad esplorare cio che mi piaceva di piu, ascoltando poco o nulla degli altri".

Come avvenne il passa^gio al mondo discografico?
"C'era sempre piu gente che chiedeva nastri della mia musica. Avevo del vicini di casa che erano innamorati delle mie composizioni e mi ascoltavano religiosamente tutte ie sere. Quando partivo per un viaggio, registravo loro qual-che cassetta, in maniera che potessero ascoltarmi anche quando non c'ero. Cominciai allora ad intuire che, se non mi davo da fare, quella musica non l'avrebbe mai ascoltata nessuno altro. Registrai un nastro in proprio, Michael's Music, nel 1981. La Narada lo distribuiva in tutta la nazio-ne (e nel 1983 mi avrebbe proposto di riregistrarlo su disco con il titolo Pianoscapes). Visto il successo di quel nastro, ne feci un altro, Windsong (Antiquity) nel 1983. II prime vero disco da professionista fu Seascapes (Narada) del 1984. Da II la strada e stata in discesa: sono venuti la stima, il successo. ie commissionF.

La sua massima ispirazione?
"La musica classica. Chopin e Debussy su tutti. Ma citerei anche Rachmaninov e Skrjabin, benche non si sentano nelle mie composizioni".

Perche ilpianoforte?
"Perche mi consente di suonare un' orchestra! Mi spiego. lo so suonare anche il sassofono, l'organo, il clarinetto, ma nulla mi consente di ottenere la stessa varieta di suoni. Con il pianoforte passo molto tempo a cercare di scoprire nuove tecniche, nuove tonalita, a volte lo faccio suonare come un piccolo o un flauto. Con dieci dita posso trasformare il piano in un' orchestra. Le garantisco che nelle mie composizioni uso tutte le 88 note della tastiera! Mettiamola cosi: se non fossi un pianista, sarei un arrangiatore. Perche il piano acustico e non una tastiera elettronica? Perche non si tratta soltanto di generare i timbri, rna anche di stabilire una corrispondenza fra il corpo e lo strumento. Quando suono il pianoforte, mi sento tutt'uno con lo strumento. La musica sul piano nasce da una simbiosi fra il mio corpo e il piano, una relazione fisica fra ie mie dita, il legno, i tasti, la forma del piano. Non c'e una vera separazione fra me e lo strumento. E' come quando vado in canoa: io e la canoa siamo un solo organismo, che deve procedere insieme e sincronizzato".

E adesso?
^Sto scrivendo un libro, che sara una raccolta delle novelle che avevo inventato quando imparavo a suonare il piano. Si intitolera Dancing With The Animals e spero che possa ispirare altra gente a suonare il piano con lo stesso spirito. C'e molta gente che impara a suonare troppo bene, nel sense che Finsegnamento finisce per castrare la creativita. Quelle persone hanno un rapporto difficile con lo strumento che riflette di fatto il rapporto che ebbero con il maestro. Bisogna invece imparare a coltivare questo flusso di creativita nella vita di tutti i giorni e trasferirlo nella musica. In parallelo sto preparando un nuovo disco, che non ha ancora titolo, ma il cui tema di fondo e quello del "volo libero": penso alle anatre selvagge quando aprono ie ali e partono alla volta delVorizzonte. Ogni mio album ruota attomo a un tema, anche se normalmente il tema viene dope che ho registrato la musica e non prirna. Cioe me ne rendo conto quando ho finito. Alla fine di Magical Child, per esempio, scopersi che il disco era improntato sul senso di curiosita e sulla voglia di giocare che e tipica dei bambini^.

Perche non suonare invece i classici?
"Suonare compositori classici mi limiterebbe. lo non suono composizioni per pianoforte, suono "me stesso"! C'e una grossa differenza fra suonare la musica di Chopin e suonare Chopin: tutti possono suonare la sua musica, ma soltanto Chopin puo suonare "se stesso"!

E comporre un concerto?
"Qui c'e un altro problema. La mia musica e fatta soprat-tutto di infinite e infinitesime sottigliezze. In un concerto si acquista complessita e drammaticita, ma si perdono la sot-tigliezza e la spontaneita della musica. Per questa ragione amo tanto la forma della sonata. Facendo un parallelo, io amo molto la natura, ma una foresta non mi dice nulla: sono gli aghi dei pini ad affascinarmi".

Il lavoro di assistente sociale come va?
"Si e` evoluto negli anni. Adesso sto cercando di fondere quel background con la mia passione per la musica. Da un anno collaboro ad un progetto di ricerca dell' MTI, denomi-nato "Dialogue". Venne avviato dal farnoso fisico teorico David Bohm, morto l'anno scorso, il quale era rimasto impressionato dalle teorie di un maestro indiano: gli uomi-ni hanno difficolta a stare insieme, a comunicare, ad ascol-tarsi. Bisogna insegnare loro ad ascoltare piu attentamente gli altri, ad entrare nella loro mente. II progetto ruota a ttor-no al concetto di "spazio di dialogo", che e uno spazio col-laborativo, usato da tutti i presenti. II mio pianoforte serve a creare quello spazio. Abbiamo sperirnentato la teoria in sindacati e ospedali, in Russia e in Africa. Far stare la gente insieme non e facile. Questa ricerca e, tutto sommato, soltanto un modo di dare una veste scientifica a fenomeni millenari, per esempio alle tradizioni dei pellerossa, che si sedevano attorno al fuoco e ascoltavano la musica senza bisogno di parlare, e poi si mettevano d'accordo in cinque minuti. E' anche un modo scientifico di spiegare perche tanti musicisti usano la musica come terapia. La musica ha un ruolo segreto da giocare, non e intrattenimento, e par^ dello star bene in mezzo agli altri. E' uscito da poco il libro di Bohm "Changing Consciousness", che spiega la teoria. Oggi, per esempio, sto per partire alla volta di Kansas City, dove sperimenteremo il nostro metodo sugli operai delle acciaierie. La nostra e una tecnica che viene ormai citata nei libri di management, uno e state persino tradotto in cinese. II nostro obiettivo e di portare la musica nei mondo reale!"


Paul Winter
(Copyright © 1993 New Sounds)

La pluri-decennale carriera di Paul Winter e' una metafora per l'evoluzione dell'intera world music: partito dal jazz degli anni Sessanta, e' pervenuto a una fusione sempre piu' audace di modi, temi e suoni che abbracciano le culture piu' disparate del mondo. Il suo Consort e' il modello a cui si sono ispirati tutti gli ensemble di world music: una formazione in cui sono accostati strumenti dai timbri intensi e delicati, ignorando i dogmi del jazz tradizionale. In questi giorni e' iniziata la distribuzione su grande scala del nuovo CD, "Prayer For The Wild Things", che era gia' in circolazione (tiratura ad edizione limitata) dall'anno scorso. Accanto a Winter c'e' la Earth Band, una nuova formazione che ripropone Glen Velez e Eugene Friesen dal Consort, ma anche sei nuovi musicisti (corno inglese, corno francese, oboe basso, fagotto, clarinetto contrabbasso) e tre percussionisti.
"Vengo da una famiglia di musicisti, per cui non sorprende che fin da piccolo venissi avviato allo studio del pianoforte e del clarinetto. Per un po' militai anche in una big band della Pennsylvania. Fu soltanto quando arrivai a Chicago per studiare all'universita' che scoprii il jazz e il sassofono. Nel 1961 formai il mio Sextet e cominciai ad esibirmi dal vivo. Il Paul Winter Sextet immortalato nel disco omonimo per la Columbia del 1961 era composto da compagni di studi: Warren Burnheardt al piano (che ha poi registrato diversi dischi solisti), Harold Jones alla batteria (che ha suonato poi per diversi anni con Count Basie), Les Rout al sax baritono (deceduto), Dick Whitfell alla tromba (anch'egli deceduto) e Richard Evans al basso (che oggi insegna alla Berkeley School of Music). Suonavamo un bebop aggressivo e assordante, come era di moda fra i giovani di allora. Il bebop era l'heavymetal per i giovani di quegli anni."

Come nacque la passione per la musica etnica?
"La svolta decisiva nella mia carriera venne dai tour che il governo americano organizzava nei paesi del Terzo Mondo. Noi venimmo spediti per sei mesi in America Latina. Dal febbraio al luglio 1962 fu per me come un lavaggio del cervello. Gran parte del tempo lo passamo in Brasile, dove era scoppiata la moda della bossanova. Il primo disco di bossanova a uscire negli USA fu quello di Stan Gets e Charlie Byrd del giugno 1962. Il nostro album, "Jazz Meets Bossanova", fu il secondo. Poi registrammo il concerto per John Kennedy, alla Casa Bianca: "Jazz Premiere Washington". Poi vennero ancora un paio di album con il Sestetto. Nel 1964 tornai in Brasile da solo e registrai con musicisti brasiliani due dischi di bossanova autentica, "Rio" e "The Sound Of Ipanema" (con Carlos Lyra al canto). La musica brasiliana, cosi' quieta e emotiva, cambio' per sempre la mia vita, tocco' la parte piu' femminile della mia personalita', cosi' come il bebop aveva esaltato i miei istinti di macho. Mi innamorai in particolare del suono della chitarra acustica brasiliana, e di quel tranquillo continuum delle percussioni, un'accoppiata che e' tutto l'opposto del piano e della batteria dei complessi jazz. La filosofia agrodolce della saudade fece il resto."

Il formato del jazz le stava troppo stretto a quel punto...
"Nacque cosi' l'idea di formare un gruppo che si ispirasse a questo stile, e che in piu' unisse il violoncello e il corno inglese, due strumenti che ho sempre amato. Il Winter Consort prese forma verso il 1967 (il primo disco e' dell'anno dopo): violoncello, liuto, corno inglese, flauto, marimba, chitarra e basso componevano il complesso. Dopo altri due dischi preparatori vennero i primi veri tour, dal 1970 al 1972, e prese forma quella che sarebbe stata la formazione classica, composta in gran parte dai musicisti che avrebbero poi formato gli Oregon: Paul McCandless (l'unico che c'era fin dall'inizio), Ralph Towner, Colin Walcott, Glen Moore, David Darling. E' questa la "line-up" dell'album "Road" (il disco che gli astronauti portarono sulla Luna nel 1971) e di una delle mie opere piu' famose: "Icarus" (l'album con "Whole Earth Chant")."

Perche' termino' l'esperienza del Consort?
"Il Consort si spense essenzialmente perche' volevamo andare in direzioni diverse. Devo dire che io cominciavo a sentirmi stretto: Towner scriveva molta piu' musica di quanta ne scrivessi io. Passarono anni di attivita' ridotta fino al 1977, quando registrai "Common Ground". Ritengo quel disco il disco piu' importante della mia carriera. Fu infatti quello in cui iniziai ad incorporare suoni naturali. Vi suonarono Darling, McCandless, Steve Gadd alla batteria (uno dei session man piu' famosi del mondo, ha aiutato anche Paul Simon), Lauvir DeOlivera alle percussioni, Oscar Castronezes alla chitarra, Paul Stookay alla chitarra e altri. Per quanto mi riguarda quello fu il primo album che abbracciasse l'intero spettro della world music, che rendesse omaggio alle creature del pianeta, che unisse influenze brasiliane e africane. Vi figurano una canzone con le balene, "Ocean Dream", una con i lupi, "Wolf Eyes", e una con l'aquila, "Eagle Cry": quella trilogia simbolizzava le voci della natura e apriva un nuovo corso nella mia carriera, e forse nella storia della musica new age."

Perche' senti' il bisogno di creare una sua etichetta, la Living Music?
"Ebbi una piccola crisi esistenziale. Non volevo piu' dare la mia musica in mano alle major, che avevano mal distribuito tutti i miei dischi, che non avevano mai saputo capire lo spirito della mia arte. Decisi allora di formare la Living Music. Il primo album fu "Callings", la cui formazione comprendeva Jim Scott alla chitarra, Eugene Friesen al cello, Nancy Rumbel al corno inglese, Gordon Johnson al basso, Ted Moore alle percussioni e Paul Halley all'organo; ovvero la nuova generazione di talenti. Musicalmente si tratta di un'evoluzione naturale del suono di "Common Ground". Questa volta i protagonisti sono tredici mammiferi, ciascuno rappresentato da uno strumento. E' anche il disco in cui comincio a sperimentare con l'organo a canne. Due anni dopo usci' la "Missa Gaia", in cui forse si percepisce la transizione a quella che piu' propriamente oggi chiamiamo new age."

Degli ultimi dischi quali ricorda con particolare piacere?
"Sunsinger" nacque quando decisi di fare un disco per solo sassofono, come stavano facendo tanti altri jazzisti d'avanguardia. Poi mi orizzontai a farne un disco in duo con Halley, ma incontrammo Velez e ci piacque di piu' l'idea di fare un trio... "Concert For The Earth" riprese invece il discorso e l'orchestrazione di "Callings", con l'aggiunta di Castanezes che era tornato con noi. Per "Canyon" ebbi anche McCandless e John Clarke al corno francese. Nel frattempo per la Living Music cominciavano a uscire album di altri artisti. Gli anni successivi furono molto intensi, ma in realta' le fondamente erano state gettate nei dischi precedenti. Citerei ancora "Whales Alive", le cui musiche sono tutte basate su melodie delle balene, un disco che e' piu' che altro un duetto fra me e Halleys, e "The Man Who Planted Tree", musiche per un testo di Jean Giono, che e' stato tradotto in basco, catalano e castigliano. E siamo arrivati agli anni Novanta. Dopo due album dal vivo, "Spanish Angel" e "Solstice Live", l'anno scorso ho fatto questo "Prayer For The Wild Things" che viene distribuito soltanto adesso."

Quali nuovi progetti sono in corso?
"E' dal 1984 che registro musica al Lago Baikal, in Siberia. E' il lago piu' profondo del mondo, con una natura assolutamente unica al mondo. Ci sono andato gia' sette volte, forse ci tornero'. Credo di essere prossimo a concludere l'album. Ho quattro o cinque progetti in parallelo. Per esempio, un album con il poeta russo Yevtushenko, un altro con il vecchio folksinger Pete Singer... Forse sono appena all'inizio della mia carriera..."


Craig Chaquico
(Copyright © 1993 New Sounds)

Chaquico divenne famoso come chitarrista dell'ultima formazione dei Jefferson Starship. Il suo stile al tempo stesso lirico e incendiario ha pennellato diversi degli "hit" di quel complesso. Soltanto adesso ha deciso di provare la strada solista, e non soltanto solista, ma addirittura acustica; un bel salto rispetto all'hardrock della Starship. Non dimentichiamoci che Chaquico ha fama di enfant prodige: formo' il suo primo complesso da bambino e a sedici anni era gia' il "lead guitarist" della Starship, fatto che dev'essere tuttora un record fra i gruppi da classifica (figura su tredici dei loro album d'oro ed e' stato nominato persino all'Oscar della musica).

Molti sono rimasti sorpresi di questo disco, si aspettavano semmai che Craig Chaquico, lo scintillante chitarrista della Starship, diventasse un eroe dell'heavymetal...
"Non avevano del tutto torto! La mia raccolta di dischi e' prevalentemente di quel genere. Se mi avessero fatto questa domanda dieci anni fa, avrei scommesso anch'io su una carriera di chitarrista heavymetal. La decisione di abbracciare una carriera acustica e' venuta quasi per caso. Quando la Starship si sciolse, mia moglie era incinta. Ne approfittai pertanto per passare un po' di tempo a casa con lei. Non avendo altro da fare, mi misi a suonare la chitarra acustica, lo strumento con cui avevo iniziato ma che poi avevo abbandonato. Si da' il caso che a mia moglie piacesse molto il suono rilassante della chitarra acustica. Venni cosi' incoraggiato a suonarla sempre piu' spesso, quasi tutto il giorno. Cominciai allora ad esplorare le differenze fra acustica ed elettrica: quella acustica e' piu' difficile, devi scegliere le note con maggiore attenzione. Quando lo ascolti, un brano eseguito con l'acustica ti sembra sempre piu' appassionato; la ragione e' che c'e' dietro uno sforzo maggiore. Poi l'acustica ha una risonanza molto particolare, vibra come se fosse un essere vivente, risuona con il tuo corpo, per cui alla fine ti riesce piu' personale ed emotiva. Insomma, me ne innamorai. Convinsi l'amico Ozzie Ahlers ad aiutarmi nell'opera di scrivere e produrre questi pezzi. Ozzie e' co-autore dell'intero album. Pochi lo conoscono, eppure ha suonato l'organo per i concerti solisti di Jerry Garcia (il leader dei Grateful Dead), ha accompagnato Van Morrison, Greg Kihn e Jesse Colin Young, e tanti altri.

Ci accomuna l'amore per la california del nord, dove viviamo entrambi. A me piace viaggiare in moto, a lui in bicicletta. Entrambi siamo affascinati dalla Natura. Decidemmo di dedicare ogni brano del disco a un luogo che e' raggiungibile da qui (Mill Valley, poco a nord di San Francisco) in bici o in moto nell'arco di un giorno. Per esempio, da casa mia vedo il monte Tamalpais, e la prima canzone, "Mountain In The Mist" e' appunto dedicata a quello. La foresta di Muir Woods mi ha ispirato "Land Of The Giants". Al tempo stesso mio figlio era nato e stava crescendo: questo disco e' stato composto nell'arco di tempo in cui lui compiva le sue prime esperienze. Gli ero di fianco la prima volta che senti' un temporale. Si mise a piangere a dirotto, non sapevo come calmarlo. Cominciai a suonare con la chitarra una melodia che imitava la pioggia e a raccontare che qualche volta gli angeli piangono perche' sono felici e le loro lacrime portano tutti i fiori e le farfalle. Nacque cosi' quella che adesso si chiama "Angel tears". Se ascolti con attenzione, senti il rumore della pioggia che sale poco a poco, il tuono in lontananza, l'arcobaleno che sale... Insomma, questo disco non e' stato programmato a tavolino, non e' stata una decisione presa coscientemente: e' successo, e' diventato un fatto serio man mano che prendeva consistenza."

Quindi il materiale del disco e' stato composto nell'arco di un periodo piuttosto lungo?
"Circa due anni. Ci venivano continuamente idee mentre lo stavamo registrando. Abbiamo continuato a rifinirlo fino all'ultimo momento. Spesso i brani nascevano semplicemente accarezzando le corde della chitarra al lume di candela nello studio deserto; ma poi ci volevano mesi di continui perfezionamenti per arrivare alla forma definitiva. Ogni volta che entravamo in studio non avevamo alcuna idea di come i brani sarebbero venuti alla fine della giornata. Avevamo soltanto una regola: la melodia doveva essere il fattore piu' importante, non doveva essere un disco influenzato da quante note al secondo riesco a suonare sullo strumento, da quanto riesco ad essere acrobatico. Volevamo fin dall'inizio che fosse un disco nettamente distinto dai tanti dischi di chitarra elettrica. Un'altra regola che venne in seguito fu quella di "riempire il suono" in modo che fosse davvero stereo, che gli altoparlanti fossero sempre traboccanti di note. E' una tecnica che ho imparato dai Led Zeppelin, da Hendrix, dai Pink Floyd."

Torniamo alle origini...
"Alle origini... crebbi in una piccola fattoria presso Sacramento, dove fra le mucche e le galline c'era sempre una chitarra acustica. I miei genitori erano entrambi portoghesi e a dieci anni mi proposero di cominciare a prendere lezioni di fisarmonica e sassofono, gli strumenti che suonava mio padre. Un giorno gli confessai che la mia passione era per la chitarra, e lui accetto' volentieri di comprarmene una. Sfortunatamente proprio in quel periodo fui vittima di un brutto incidente d'auto: passai tre giorni in coma, con tutte le ossa a pezzi, e poi una lunga convalescenza in ospedale, completamente fasciato. Avevo la mia nuova chitarra e non avevo nulla da fare. Morivo dalla voglia di suonarla e i dottori mi incoraggiarono, perche' avrebbe aiutato i miei muscoli. Quell'esperienza mi fece desiderare di suonare la chitarra ancor piu' di prima. Ripensandoci, fu quella la prima volta che suonai di fronte a un pubblico! Avevo dodici anni e potevo toccare con la mano fasciata soltanto la corda di "mi"... Ancora oggi la corda di "mi" ha un significato particolare nella mia musica. Un altro fatto importante fu quando mio padre porto' a casa questo suo amico, che io pensavo fosse soltanto un suo bracciante: invece era un professionista portoghese di flamenco e di fado. Lo sentii suonare soltanto una volta, ma basto' a cambiare per sempre la mia vita... Crescendo poi cominciai ad ascoltare i chitarristi rock: Garcia, Santana, Hendrix, Clapton, Allman, Cipollina, Page. Non avevo molto dischi, ma quelli che avevo li ascoltavo di continuo. Nella mia musica li sento ancora tutti li'."

Quanta parte della tua musica e' improvvisata?
"Direi 50-50. Le melodie sono composte con cura certosina, l'improvvisazione e' soprattutto nella chiave che uso. Io dico che "compongo le mie improvvisazioni", nel senso che registro inizialmente del materiale soltanto sulla base dell'ispirazione del momento, senza riflettere su cio' che sto facendo con le corde, senza inibito da regole razionali. Naturalmente faccio molti errori. Poi mi metto con calma nello studio ed esaminano con attenzione ciascuna delle dieci tracce, una ad una, e rimedio a quegli errori. Alla fine estraggo quello che mi serve e da quel punto in poi diventa un processo molto razionale. Per me questo metodo e' un divertimento: scoprire melodie che sono dentro di me, dentro la mia mente, dentro la mia immaginazione; che hanno una vita tutta loro, indipendente."

E la passione per le moto da corsa?
"La moto sta all'auto come la chitarra acustica sta a quella elettrica: e' altrettanto difficile e avventurosa, ma al tempo stesso ti concede piu' creativita'; e' anche piu' pericolosa.... ma sei all'aperto, hai una visuale di 360 gradi, senti il vento sul tuo viso, senti i profumi della natura. Guidare una moto prende la parte analitica della mia mente, lascia libera l'altra parte di godersi la gita."

Piani per il futuro?
"Sto lavorando al secondo album, che sara' piu' o meno sulla stessa falsariga, forse appena piu' aggressivo. Dal vivo sono piu' veloce, e questo secondo album sara' un po' influenzato dal mio stile live. Non ho invece alcun desiderio di tornare a far parte di un complesso rock, un po' perche' preferisco suonare la chitarra acustica e un po' perche' dovrei confrontare la nuova carriera con quella, estremamente fortunata, con la Starship. Come chitarrista acustico ho la fortuna di non avere alle spalle sedici anni di successi..."

Della Starship hai buoni ricordi?
"Certamente. Ho un ricordo bellissimo di Grace Slick, una delle piu' grandi cantanti di tutti i tempi e una persona meravigliosa. Per me suonare con lei fu il sogno di un bambino che si avvera. Alla fine pero' la situazione si era un po' deteriorata, era diventata una grande trovata pubblicitaria. Sono grato di cio' che mi ha dato, ma sono anche contento che sia finita."