- Dalla pagina sui Doors di Piero Scaruffi -
(Testo originale di Piero Scaruffi, editing di Stefano Iardella)
In breve:
Di tutte le band creative nella storia della musica rock, i Doors si potrebbero considerare quelli più creativi. Il loro primo album contiene solamente dei capolavori e rimane praticamente ineguagliato. Jim Morrison potrebbe benissimo essere l'unico frontman più importante della storia della musica rock. È colui che ha definito il cantante rock come artista, non solo come cantante. Lo stile di Ray Manzarek alle tastiere era all'avanguardia della fusione tra musica classica, jazz, soul e rock. La virulenza di alcuni dei loro riff ha fatto da ponte tra l'era del blues-rock a quella dell'hard-rock. Che si trattasse di lui, di Krieger o di Manzarek o di tutti loro, le loro canzoni hanno una qualità unica che non è mai stata ripetuta. Canzoni metafisiche pur essendo psicologiche e pur essendo fisiche (erotiche e violente). Sono la cosa più vicina a William Shakespeare che la musica rock è riuscita a produrre.
Bio:
I Doors furono protagonisti di una breve ma intensa stagione creativa,
durante la quale registrarono uno dei massimi capolavori della storia
del rock. Più passano gli anni e più sembra che la loro fama resterà
legata principalmente a quel primo lavoro.
All'interno della formazione dominava
la personalità di Jim Morrison, cantante e ispiratore della loro musica,
e uno dei massimi istrioni della cultura Americana.
James Douglas Morrison nacque l'8 dicembre 1943 a Melbourne, in Florida.
Il padre era ufficiale d'alto grado della marina militare, e avrebbe voluto
iniziare anche il figlio alla carriera. Ma questi preferì, rotto ogni legame
con la famiglia, emigrare a Los Angeles per frequentare l'UCLA. Qui intraprese
studi di cinematografia, latino e greco, e si laureò in tecnica cinematografica
nel 1964, dopo aver anche diretto un film sperimentale.
I Doors nacquero nel settembre del 1965, quando alla UCLA Morrison conobbe il pianista Ray Manzarek, quattro anni più anziano, laureato in economia ma innamorato dei blues dei suoi luoghi d'origine (Chicago), che suonava a Santa Monica in un complesso a gestione familiare (Rick and The Ravens). A loro si unirono due membri dei Psychedelic Rangers: il batterista John Densmore (appassionato di jazz) e il chitarrista Bobby Krieger (appassionato di flamenco e di jug), entrambi seguaci del guru Maharishi Yogi.
Il nome "Doors" fu un
doppio tributo: alla poesia di William Blake in cui si parla delle porte che
separano le cose note da quelle sconosciute e al libro di Aldous Huxley
sulla droga, "Le porte della percezione", tributo che distribuiva già
chiaramente i debiti di riconoscenza e tracciava le direttive per lo sviluppo
del sound.
I Doors
cominciarono a suonare in un locale del Sunset Boulevard, il London Fog,
e poi vennero assunti al celebre Whiskey-a-go-go, facendosi le ossa con
i più famosi complessi dell'area: Turtles, Seeds, Love.
Il loro sound, un blues-rock veemente ben più maturo delle timidezze beat
in circolazione, li portò prepotentemente alla ribalta: l'organo
frizzante di Manzarek (che doveva fungere anche da basso e da coro),
la chitarra nitida, sognante, allucinogena, tipicamente west-coast,
di Krieger, la batteria di Densmore, fibra blues del tessuto sonoro,
costituivano lo sfondo suggestivo su cui si muoveva la voce cavernosa,
d'oltretomba, di Morrison, quel continuo riferimento sonoro al buio,
al nulla, all'ignoto, e in definitiva alla morte, che era il suo canto.
Le sue folgoranti prediche stordirono e illuminarono gli adepti della maledizione
esistenziale. I concerti dei Doors assunsero presto l'aspetto di veri e propri
"acid test", paragonabili a quelli contemporanei della Baia, durante i quali
il complesso dilatava all'infinito i classici blues del repertorio.
I Doors furono scritturati nell'estate del 1966 e a gennaio usciva il loro primo disco, The Doors(Elektra, 1967), accolto con entusiasmo negli ambienti underground che li avevano visti nascere.
Quell'album scaturisce dalla fusione di sei elementi d'alto potenziale
suggestivo: la grezza epidermica pulsione del blues-rock (sigillata nel battito
ostinato di Densmore);
una personale interpretazione in chiave "barocca" della psichedelia (marchio
soprattutto dell'organo fatuo ed eclettico di Manzarek, che sa svariare da
uno swing torpido a uno scampanio da pianola fino a maestose volute liturgiche);
un piano accurato di contaminazione esotica (i timbri latini ed hawaiani della chitarra di Krieger);
il canto seducente e sinistro di Morrison;
il fascino addirittura evangelico della sua personalità;
e il simbolismo folgorante delle liriche, a metà strada fra tragedia greca e psicanalisi freudiana.
Il disco si apre con uno dei loro brani più famosi, Break On Through,
un tema rabbioso e insolente a ritmo incalzante che si consuma senza un attimo di
pausa in poco più di due minuti, un'epilessi punk-rock ante-litteram,
seppure con tracce di Ray Charles (What'd I Say) e Elmore James (Shake Your Money-Maker).
Soul Kitchen è un blues-rock dai toni "vissuti" che si trascina fino all'
esplosione improvvisa, l'invocazione demoniaca in cui culmina una cerimonia satanica
allestita nella "cucina delle anime".
L'atmosfera mefistofelica si stempera
nel dolce oblio ("sonno inconscio") di Crystal Ship, un breve ma perfetto
capolavoro di espansione della coscienza in cui la ricerca di una libertà soprannaturale provoca una paura primitiva e
contemporaneamente estasi ("giorni radiosi e colmi d'angoscia"); un acuto
dolore esistenziale la colora di tinte strane (le sfumature impercettibili
del trip lisergico), uno spleen denso di vertiginosi simbolismi
("navigando, ci incontreremo di nuovo... "),
in cui il piano disegna un crescendo epico.
20th Century Fox è un sarcastico inno alla donna "volpe" che “non spreca mai il
proprio tempo in chiacchiere... ha il mondo chiuso dentro una scatola di
plastica”, un ritratto femminile che va a stamparsi nella galleria di Dylan e
dei Jefferson.
"Accendi il fuoco, prova ad accendere la notte col fuoco... non c'è tempo per
rotolarsi nel fango; prova, potremo soltanto perdere, e il nostro amore finire
in un rogo crematorio". Un testo di soli undici versi per sette minuti di musica
vertiginosa: un organo che vortica negli spazi siderali con tonalità da
clavicembalo barocco, una chitarra che si infiamma, svanisce e riprende, nel ciclo inesuaribile del fuoco, una batteria che profana la musica da ballo Cubana, una voce
che esce dal buio dell'aldilà e lancia il suo straziante richiamo: Light
My Fire (parto di Krieger, come molti dei loro riff più avvincenti)
è un drammatico inno al sesso e alla morte, al fuoco e al buio,
all'istinto selvaggio che si risveglia di notte e alle turpi premonizioni che
ne ammorbano il piacere. Nell'intermezzo strumentale lo spettacolare duetto fra
Manzarek (jazz, tracce di Fats Domino, romantico, rag-time, boogie) e Krieger (arabo,
gitano, spagnolo) su ritmo Latino conia un sound
teso e febbricitante, raffinato e lineare, che sonda ipnoticamente la psiche,
di là dalle famose "porte".
L'incubo arcano di End Of The Night, un ralenti ipnotico, una ninnananna
disperata sul tema della "fine della notte"
(contraltare della "notte senza fine", atroce terrorizzato separarsi dai
sogni e dai piaceri della notte) e Take As It Comes, una disimpegnata e
grintosa ripresa del vortice di Light My Fire, introducono agli undici
(lunghissimi) minuti di The End, la leggendaria agonia in cui culmina
tutta l'opera.
Undici minuti di nenie orientali, di misticismo squilibrato,
d'improvvisazione collettiva sommessa e rarefatta, di magma primordiale di
emozioni,
di esorcismi convulsi, di trame inestricabili,
di profumi di zolfo
e d'incenso: "questa è la fine, la mia unica amica, la fine... la fine di
tutto ciò che esiste" in un crescendo che attanaglia, il respiro contratto
che sbava deliri lascivi e blasfemi versetti biblici,
la cerimonia che procede inesorabile per anatemi e incubi, il mito di
Edipo che carica ogni parola di orrendi presentimenti, l'anima moribonda che
barcolla senza più sostegno persa in una "landa disperata",
il canto che si trascina ora insinuante ora epico, ora voce narrante ora
protagonista lacerato da traumi mostruosi,
le frasi sconnesse dopo un viaggio troppo lungo, la
suspence strumentale che si tende fino ad elettrizzare ogni parola:
"l'assassino si levò prima dell'alba, e calzò gli stivali; prese una
maschera dalla galleria antica, e s'inoltrò nel corridoio; giunse alla stanza
del fratello, e fece visita alla sorella; e camminò fino a una porta; guardò dentro: “padre ?”, “sì figlio !”, “io voglio ucciderti !”, “madre, io voglio... ”; i riflettori accecanti puntati sulla scena della tragedia, la dolcezza psicopatica dell'assassino, che rivive le turpi
fiabe del subconscio, il canovaccio scheletrico del testo che si abbellisce
via via di sussurri e di grida, di tenerezza e di odio, di respiri e di silenzi,
e, tutto assimilando e tutto consumando nel delirio, si
ingigantisce fino a protendere i suoi abnormi tentacoli di là dal reale, nell'
"eterno" popolato da "serpenti", le porte della percezione che si spalancano
e un angelo vampiro con le pupille dilatate che rantola nell'abisso,
l'incedere solenne del tempo e della memoria:
“The end of nights we tried to die/ This is the end”
(“la fine delle notti che abbiamo
provato a mentire... questa è la fine!”)
Il caos strumentale di The End, come quello futuro di When The Music's Over,
segnano un momento importante nell'evoluzione dello stile, come le esperienze
parallele dell'acid-rock. La disgregazione armonica ha qui una funzione
puramente drammaturgica; tutti i suoni sono funzionali, "coreografici", alla
sceneggiata del cantante, colonna sonora "a braccio" più che vera composizione
musicale.
E' il capolavoro del melodramma Morrisoniano, della sua capacità di recitare
monologhi cantando, di creare atmosfere di suspence e di irretire con la
sua furibonda retorica, in un alternarsi sapientemente convulso di toni
dimessi e toni esaltati.
Il loro rock venne subito considerato come un frutto raffinato dell'underground, ma non rientrava in nessuno dei filoni allora in voga, troppo duro e maniacale per agganciarsi al sognante stile della Bay Area, troppo barocco e metafisico per accontentarsi della comune psichedelia beat.
Gli spettacoli dal vivo avevano poco in comune con la musica psichedelica dell'epoca. Era Morrison a dominarli, con la sua personalità sciamanica e i suoi atteggiamenti provocanti. Le autorità e i perbenisti non diedero mai tregua a Morrison (verrà arrestato nel 1967 in Connecticut per rissa e nel 1969 a Miami per oscenità). La persecuzione era più che meritata. Morrison conduceva una vita dissoluta, abusando tanto di alcool quanto di stupefacenti.
Incorreggibile ribelle come James Dean, quintessenza della propria musica
come Jimi Hendrix, poeta di una generazione come Bob Dylan, votato all'
auto-distruzione come Jack Kerouac, Morrison fu il portavoce dell'inquietudine
giovanile durante i moti politici del post-pacifismo e post-pschedelia.
Attraverso l'esaltazione della droga e del sesso Morrison attaccò i capisaldi
della ideologia conservatrice, e rese tangibili le istanze di ribellione
apolitica della sua generazione: il grido
“We want the world and we want it now !” era l'unico slogan che fosse
condiviso da tutti.
Componente fondamentale della musica di Morrison erano i testi. Dalla sua
preparazione classica e moderna aveva appreso il simbolismo apocalittico
di Blake, il decadentismo lugubre di Poe, il pessimismo anti-puritano
di Hawthorne, la denuncia arrabbiata di Ginsberg.
I riferimenti a queste poetiche, tutte più o meno affini alla sua idea della
vita e del mondo, non sono mai pure citazioni. Morrison amalgama tutto in
una poetica
personale, della quale sono parte irrinunciabile i simboli occulti della
sua paranoia: la "nave di cristallo" (l'eroina) che salva dal dolore,
il "fuoco" con cui un'ipotetica amante dovrebbe accendere la notte (il sesso,
la morte, forse tutti e due), il "serpente" del lago dalla fredda pelle lunga
sette miglia ("cavalca il serpente", un parodia sessuale di "cavalca la
tigre"), la "musica" stessa, che rappresenta la vita ("è la tua unica amica...
fino alla fine"), i "cavalieri nella tempesta" (e Jim era certamente uno della
pattuglia), la "lucertola" (se stesso) e su tutti la "fine" ("la mia amica la
fine... la mia unica amica: la fine").
In fondo a quel complesso mondo fantastico c'era lui, con la sua vita maledetta,
e c'erano le paure confessate in tante fughe dal reale (“disperatamente
bisognosi della mano di qualcuno” mormora in The End): in ogni urlo è
nascosto un esorcismo, in ogni bisbiglio una preghiera. Ogni suo show fu
in realtà un maniacale ego-trip: “l'artista è al tempo stesso sciamano
e capro espiatorio; la folla proietta su di lui le proprie fantasie e le
loro fantasie diventano reali; la gente può distruggere le proprie
fantasie se distrugge lui”.
La sua opera fu anche una parabola della sua stessa auto-distruzione
e può essere riassunta come quella di un Cristo alla disperata ricerca del suo Calvario.
Sulla scena Morrison attingeva al suo passato di attore e di poeta, amalgamando
gestualità, recitazione e musica in una forma espressiva originale e provocante
che, seppure incentrata sul momento musicale, è stata battezzata "teatro del
sesso e della morte".
Al flower-power degli hippy contrapponeva un personale "sexual-power". Senza
bisogno di trucco e di travestimento, riusciva a eccitare l'uditorio con una
recitazione penetrante e, nei momenti più deliranti, con quegli assalti
verbali e gestuali che gli procurarono anche l'incriminazione per simulazione
di copulazione orale.
Il sesso era per lui un fatto liberatorio e auto-glorificatorio, come in tutte
le culture primitive.
Il vero Morrison è quello che insulta e disprezza il suo pubblico, che
irride se stesso sul palco di Miami, scatenato nei rituali più
edonisti e blasfemi.
Il suo sesso era spesso macabro: le sue liriche sono pervase da un chiaro
presentimento della sua tragica fine e di un senso cosmico dell'assassinio
come manifestazione suprema della vita
(il “killer sulla strada” il cui “cervello si contorce come un rospo” di
Riders Of The Storm).
Morrison manifestava una tendenza allo sdoppiamento della personalità che gli
piaceva riportare a un'antitesi religiosa demonio/ Cristo: da un lato si
definiva ironicamente il re dei "sinners" ("peccatori", mentre "singers" vuol
dire "cantanti") ed elaborava squallide e contorte elucubrazioni su incesti,
omicidi e complessi di Edipo, mentre dall'altro si atteggiava a profeta,
redentore e martire (in una celebre fotografia è nudo crocefisso a un palo
telegrafico). Questa tendenza allo sdoppiamento dava origine a trasformazioni
improvvise durante i concerti: mentre recita Celebration Of The Lizard,
dopo aver addormentato il pubblico e creato un silenzio soprannaturale,
lo aggredisce con un urlo immane (“wake up!”), vero risveglio del suo alter-ego
demoniaco.
Si può pertanto separare un'altra componente della sua personalità artistica:
l'attore. Egli è attore infatti in almeno due momenti: quando compone dei
pezzi che sono quasi sempre delle sceneggiate (ad esempio quella celebre
della fucilazione del soldato di "soldato ignoto" e la tragedia simbolica della
"celebrazione della lucertola"), e quando canta i suoi monologhi adattando
di volta in volta la voce all'atmosfera che intende creare e alla "scenografia"
del brano (arrogante e imperiosa in Light My Fire, desolatamente nostalgica
in Strange Days, licantropa e assassina in Break On Through).
Il successo del 45 giri di Light My Fire consentì al gruppo di
registrare subito un secondo album, Strange Days (Elektra, 1967).
Il disco ricalca sostanzialmente la struttura dell'opera d'esordio.
Il tema di fondo è: "giorni strani". Il disco esce nel
1968, e certo sono giorni strani per gli States, per i giovani nei campus
occupati, per i soldati nel Vietnam, per i neri in rivolta. Morrison vive
a modo suo l'inizio di una nuova era, fiutando le crisi che metteranno in
ginocchio il paese e presagendo la pazzia e la solitudine che trasformeranno
i grattacieli in manicomio e gli appartamenti tutti uguali in celle d'isolamento.
La gente della metropoli è perduta, straniera, confusa, alienata, ostile.
In tutto il disco il senso è dato dalla cadenza, dal tono, dal volume della
voce di Morrison: lugubre quando si leva da una dimensione quasi d'oltretomba
a profetizzare apocalissi imminenti;
soffocata, sotterranea, mormorio mesto e minaccioso quando "conversa"
casual e distaccata con i suoi fantasmi interiori.
Una vertiginosa apertura organistica lancia il motto di
“Strange days have found us” (“strani giorni ci hanno trovati”,
come se avessero dato la caccia per anni a
un'umanità troppo sicura della propria civiltà): l'annuncia
sinistra e anemica
una voce catacombale (ottenuta con un elementare e molto suggestivo effetto
di eco).
Il brano-manifesto gioca sull'equivoco della parola-slogan "strano":
strano perchè incomprensibile, strano perchè diverso, strano perchè
allucinato. Incomprensibile perche' la confusione della sua generazione non è
mai stata così grande, e nel momento dell'apparente trionfo si percepisce
una indefinibile sensazione di sconforto. Diverso perchè mai la società era
stata percorsa da moti così asociali, mai era stata messa così in discussione
la sua stessa sopravvivenza. Allucinato perchè visto sotto l'effetto di potenti
allucinogeni. Queste le tre direttive di tutta l'opera.
You're Lost Little Girl, Love Me Two Times, Unhappy Girl, sono brevi
"storie strane" incentrate su un personaggio femminile.
Il ritornello marzial da cabaret della prima, il blues sincopato della seconda,
il sospiro orientaleggiante della terza, sono conferme dell'incredibile
capacità del gruppo di assimilare elementi di tutti i generi e fonderli
in un amalgama originale, caratterizzato dalle inconfondibili cadenze,
progressioni e impennate.
Horse Latitude, pur nella sua estrema concisione, è un momento cruciale
del disco: la musica si contorce in grappoli di dissonanze, la voce urla, altre voci urlano con
lei, in un concitato sabba elettrico al chiaro di luna; gli strumenti eseguono fedelmente
gli ordini che la voce impartisce con tono sconnesso e glaciale: “fermati...
acconsenti”; e tutto si perde nel canto disteso di Moonlight Drive, sincopato
reperto di canzone lunare: “nuotiamo verso la luna... penetriamo la notte
che la città cerca di nascondere...”.
La luna è un simbolo importante nella mitologia morrisoniana, ispiratrice
di sensazioni opposte: da un lato risveglia l'istinto licantropo,
dall'altro eccita la brama d'infinito.
People Are Strange è il ritornello da vaudeville che canticchia malinconicamente lo straniero solitario (un altro
facile simbolo che sta per Morrison stesso): “i visi sembrano brutti quando
sei solo,
le donne diventano cattive quando nessuno ti vuole..., quando sei strano,
nessuno ricorda il tuo nome...”.
E' una sconsolata ammissione della propria
solitudine, ma le parole si possono prestare a diverse altre interpretazioni,
proprio perchè in quella condizione si deve comprendere l'intera società
che sta vivendo una crisi drammatica e una gente che è "strana" nel senso
di diversa.
My Eyes Have Seen You, soul latineggiante a ritmo hard-beat con il solito
repentino capovolgimento d'umore che la scaraventa in un registro licantropo,
e I Can't See Your Face, altro brano "minore"
dedicato, in una stupita siesta hawaiana, a un'interlocutrice misteriosa,
che stempera l'atmosfera drammatica, confermano l'eccezionale stato di grazia,
compositivo ed esecutivo, di tutta la formazione: l'indovinata timbrica "secca" dell'organo, il felice contrappunto "pizzicato" della chitarra, l'efficace
mulinello ritmico della batteria.
Un urlo (una manciata di accordi blues all'organo, bordata distorta di chitarra)
annuncia When The Music's Over.
Ma è soltanto l'inizio di un viaggio che condurrà molto più
lontano, che stravolgerà il mondo in una sequenza disordinata di immagini
metaforiche ("cancellate il mio abbonamento alla resurrezione").
La rabbia sfuma in una depressione sconsolata, preghiera ordine
sfida gridata e sussurrata: "prima di sprofondare nel grande riposo, voglio
sentire l'urlo della farfalla"; il filo conduttore che si torce convulsamente,
il tema che muta di continuo per seguire i rantoli agonizzanti dell'uomo
prossimo alla fine, tutti gli strumenti che recitano marziali e frementi
con la voce:
“sento un suono dolce, molto vicino, ma molto lontano,
molto debole, ma molto chiaro”; la voglia di vendicare, il bisogno di una
rivincita, lo sfogo di chi non ha capito il perchè della storia, “cos'hanno
fatto alla Terra ?... l'hanno lacerata, l'hanno sventrata... l'hanno
chiusa in recinti”, la conclusione di chi ha aspettato troppo e ora non ha più
voglia di aspettare oltre, lo slogan che è sulla bocca di tutti: “vogliamo
il mondo e lo vogliamo...”, un attimo di pausa, non è incertezza, dubbio,
paura, è solo per prendere fiato e urlare più forte: “... adesso ! adesso ?
adesso !!” ripetuto tre volte con tre tonalità e tre significati diversi in
un clima da thriller;
ma il timore subito dopo che non basti, che non serva, che non sia solo quello:
“salvaci, quando la musica è finita; spegni la luce”, e l'ultima confessione
prima del grande sonno: “la musica è la tua vera amica, sa come farti ballare
sul fuoco, la musica è la tua unica amica... sino alla fine”.
When The Music's Over è il terminale degli inni generazionali cominciati
con il Beat inglese e proseguiti dalla gente della Baia. Morrison innesta
la protesta nel ceppo del malessere esistenziale, e quindi la universalizza,
tirandola fuori dai ristretti ambiti giovanilisti.
I Doors continuarono a far sensazione, ponendosi al di sopra delle mode e
delle classifiche. Non sono hippie, non sono cantanti melodici: sono puro
culto. Hanno così l'opportunità di ripetersi dopo pochi mesi con un terzo
album, Waiting For The Sun (Elektra, 1969).
Il complesso deve però rovistare nei cassetti per trovare abbastanza
materiale per un terzo album in due anni.
L'album sembra raffazzonato in tutta fretta per sfruttare il successo a
45 giri di Hello I Love You.
Il suono denso, grintoso,
energico e perfettamente arrangiato, dei dischi precedenti si intorpidisce
in filastrocche amorose tanto orecchiabili quanto insipide,
sovente attinte dal repertorio tradizionale. Le grandi
sceneggiate della "fine" e della "musica finita" non ebbero un seguito.
L'esasperato simbolismo delle origini si sta trasformando in una raccolta casuale
di frasi incoerenti e di immagini macchinose che si sovrappongono alla rinfusa.
Si comincia appunto con il riff alla Kinks di Hello I Love You, il cui
lepido bubblegum psichedelico è un universo intero lontano dalle atmosfere visionarie
e morbose di Crystal Ship.
Attraverso brani anonimi e ripescaggi di motivi antiquati
(Spanish Caravan, capolavoro del chitarrismo flamenco di Krieger,
Love Street, un cocktail jazz;
il lugubre country autostradale di Summer's Almost Gone;
My Wild Love, canzone dei pirati della Costa, un coro di marinai guerci
e storpi radunati sulla tolda sotto la bandiera del teschio; la non meno
funerea Yes The River Knows)
il disco snocciola soltanto indecisioni.
Anche i quattro brani nobili sono
sostanzialmente irrisolti. Wintertime Love non riesce a costruire, sull'
epica romantica e marziale di una ballata per baritono, nella folle
appassionata giostra di un memorabile ritornello
clavicembalistico, una storia d'amore con ruggiti e incubi, ma
soltanto un tenero idillio. The Unknown Soldier ripropone triti e fastidiosi
luoghi comuni del pacifismo, terminando in gran pompa con lo scampanare che
saluta la fucilazione del condannato.
Il frammento Not To Touch The Earth, prologo di uno dei grandi capolavori
morrisoniani, The Celebration Of The Lizard (il testo del quale poema è
riportato integralmente in copertina) e l'invettiva finale di Five To One,
incerta anch' essa fra il piglio marziale e feroce del guerrigliero
(“loro hanno i fucili, ma
noi abbiamo il numero”) e il lascivo richiamo sessuale, non bastano a elevare
un'opera mediocre, che segna il definitivo abbandono della mistica
psichedelica e dell'epica metafisica.
La crisi esplose acuta su The Soft Parade (1969), che quasi rinnega
tutto ciò che aveva fatto i Doors un mito della propria generazione.
Violini e fiati vengono impiegati massicciamente per nascondere il pauroso
vuoto di idee, ma guastano invece il poco che si potrebbe salvare:
Touch Me, un altro melodico ma troppo isterico singolo di successo,
ritmato dalle fiondate dei fiati e contrappuntato da una sezione di archi,
e Wild Child, un po' di oscenità avanzate dai
turpiloqui di due anni prima (una blasfema parodia dell'"Ave Maria").
I brividi espressionisti dei primi poemi tragici e l'incedere fantasioso del
barocco blues che li sosteneva si dissolvono nel kitsch soffice ed edulcorato,
di Wishful Sinful.
Tell All The People è l'inno politico di turno, e fallisce come i
precedenti.
L'ambiziosa ma deludente Soft Parade dimostra quanti anni luce
separino già i Doors del 1967 da quelli del 1969.
La crisi espressiva coincide ovviamente con la crisi personale dell'artista.
La vita dissoluta che ha condotto senza freni lo ha fortemente debilitato, e
il fatto di essere diventato un divo, di essere al centro dell'attenzione
(scandali e processi), acuisce la stanchezza.
Il successivo Morrison Hotel (1970) è forse il loro disco
hard-rock. I Doors abbandonano la psichedelia metafisica degli esordi e
si accontentano di suonare blues e country.
Il recupero sortisce qualche stacco aggressivo e qualche atmosfera sporca
(il marziale Roadhouse Blues alla Animals),
e qualche testo è ancora suggestivo
(Peace Frog e Queen Of The Highway).
Cameo del disco è un classico dell'horror-rock come Waiting For The Sun,
una melodia ipnotica propulsa da un ritmo molto cadenzato nella quale il
canto ora marziale ora estatico di Morrison infila un deliquio metafisico
dell'"attesa" (“waiting for you to come along” lasciando nel dubbio di chi
sia quel "you"); con i languori polinesiani della chitarra di Krieger e
la febbre lisergica dell'organo di Manzarek a sublimarsi una volta di più.
Anche i nuovi idoli nascenti contribuirono a svalutare Morrison. è il tempo
di mistificatori del calibro Alice Cooper, a pochi mesi dal
boom di David Bowie e Lou Reed: istrionismi sul palco e riferimenti provocanti
al sesso ne fanno tutti, e per la verità con ben più smaliziati allestimenti.
Hendrix e Joplin sono andati ben oltre nel processo di identificazione
totale con il rock. Gli MC5 hanno spiegato una volta per tutte cosa significa
fare politica in musica. Morrison sembra sorpassato dai tempi: il nuovo mondo
che chiude i '60 non ha più bisogno
della maschera di Jim Morrison.
I Doors sono rimasti gli stessi soltanto nelle esibizioni dal vivo: il loro
show, assai più povero di quelli dei divi contemporanei, può però contare
sulla camaleontica personalità di Morrison, ed è sempre in grado di offrire
una musica d'alta qualità.
Testimonianza dell'attività in concerto è il doppio
Absolutely Live
del 1970. Su questo disco si possono ritrovare la tensione terrificante,
primordiale ed esistenziale, e l'atmosfera ipnotica elettrizzante dei primi
dischi.
Il repertorio comprende un paio di classici del blues di Chicago, un medley
che culmina in una versione di Five To One tutta pause, bisbigli e urla
soffocate, la malinconia cosmica di Universal Mind,
frammento del mondo della "fine", e una grande versione di When
The Music's Over, fremente delirio personale, una trance a immersione
totale interrotta dal furibondo “shut up!” (“state zitti”) nei confronti dei
fan che applaudendo non rispettano il silenzio imposto dalla sua scansione
del testo.
Ma soprattutto c'è la leggendaria Celebration Of The Lizard, il monologo
testamento spirituale di Morrison, una recitazione spiritata divisa in otto
parti.
Un gemito atroce e un canticchiare sommesso aprono la scena dei cani randagi
in calore, rabbiosi, schiumosi, e la voce del maestro di cerimonie annuncia
che il rito sta per cominciare. Un isterico “svegliati !” dà l'avvio a
una sequenza rievocativa incentrata sulla figura simbolica del "serpente
d'oro pallido". Una canzoncina timida e folle, pregna di nostalgia per
l'infanzia, continua sulle ali della memoria: “un tempo facevo un gioco,
mi piaceva strisciare dentro il cervello... il gioco chiamato 'diventare
matto'... chiudere gli occhi e dimenticare il proprio nome... non si può che vincere”.
Ma riprende il racconto della voce fuori campo: “profondo cervello,
dove non c'è dolore”; e un ritornello psicopatico: “stiamo abbandonando la città,
e voglio che tu venga con noi”.
Poi la “Not to touch the earth”, con il suo invito
a “correre, correre, correre”. Una turpe schiera di pellegrini mormora:
“siamo scesi attraversando il fiume e l'autostrada... inerpicandoci fino
all'ombra”; e il messaggio finale, quando la musica è finita: “io sono il
re Lucertola, e posso fare qualsiasi cosa, posso fermare la Terra... ora la notte
giunge con le sue legioni porpora, ritiratevi nelle tende e nei vostri sogni;
domani entreremo nella mia città natale, e voglio essere pronto”.
Nell'aprile del 1971 esce L.A. Woman, a conferma della ripresa. E' un disco
di rinnovamento, teso ad interpretare le nuove direttive del rock: si sentono
echi di acid-rock della Baia, di rock progressivo, di hard-rock.
I Doors si modernizzano,
troncando del tutto i legami che li legavano a un'antiquata concezione della
psichedelia e perdendo inevitabilmente qualcosa della loro identità.
I testi biascicano ancora storie poco avvincenti. Le figure che si
aggiungono alla galleria classica, The Changeling (l'uomo degli spiccioli,
ripresa del mito della partenza in treno verso l'avventura) e L.A. Woman
("donna di Los Angeles mezza nuda... vedo i tuoi capelli avvolti nel fuoco")
ripetono versi di repertorio. Il realismo impegnato, nel quale Morrison ha
sempre dato prove minori, aggiunge la polemica sociale di L'America (dei
ghetti portoricani) e The Wasp con la pretesa di fare i conti in tasca a una generazione
(“amo gli amici che ho radunato in questa zattera buia”). Verso l'ermetico
universo simbolico della "fine" procedono tanto il paradiso dei tossicomani
di Hyacinth House quanto lo "strisciante serpente" sessuale di Crawling
King Snake.
Riders On The Storm consegna il testo più suggestivo della raccolta, uno
dei pochi dell'opus morrisoniano a prospettare una salvezza per i "cavalieri della
tempesta".
Gli altri Doors sono gran protagonisti delle musiche.
Manzarek in particolare pennella l'ultimo hit del complesso, l'orecchiabile
beat di Love Her Madly, con un organetto da spiaggia.
Il blues spadroneggia in tutte le varianti, da Changeling a
Crawling King Snake.
Ma ci sono anche rock and roll possenti come L.A. Woman, otto miunti
con piano honky-tonk dove Morrison può sfogare il suo shout demoniaco,
The Wasp, con apertura declamatoria alla Burdon e ancora un andamento
vaudeville,
l'epico e sarcastico passo di marcia di L'America, l'incedere suadente e pinkfloydiano
di Hyacinth House e l'amarezza autunnale di Riders On The Storm, dove il
ritmo jazz della batteria
rende l'idea della pioggia che cade fitta sull'asfalto e dei passi che fuggono
di corsa lungo i marciapiedi, e il pianismo dimesso dà tutta la misura della
solitudine nella metropoli.
La voce di Morrison si adatta camaleontica alle varie atmosfere e certo si
conqusta un posto d'onore fra quelle dei grandi interpreti drammatici, capace
com'è di oscillare fra il registro "nero" del ruggito gospel, quello
tenorile del crooner di Broadway e quello suadente del balladeer da night-club.
Sembra l'inizio di una nuova fase, invece è la fine.
Morrison venne trovato morto il 3 luglio 1971, all'età di 27 anni, nella vasca da bagno dell'hotel parigino in cui alloggiava.
La notizia venne diffusa alla stampa
soltanto due giorni dopo. Morrison era già stato sepolto nel cimitero dei
poeti, a Pere Lachaise (a nord di Parigi),
con una cerimonia a cui avevano assistito poche persone.
Le sue poesie vennero pubblicate postume.
Senza di lui i Doors si spensero rapidamente, dopo due mediocri album,
Other Voices (1971) e Full Circle (1972).
Manzarek registrò The Golden Scarab (Mercury, 1974) e
The Whole Thing Started With R'n'R (Mercury, 1975).
Riportato alla
luce dalla new wave, formò i Nite City con cui pubblicò due album.
Krieger e Densmore formarono la Butts Band con cui pubblicarono due album.
Tra tutti gli ex membri dei Doors, fu
Krieger a dare alla luce gli album più interessanti:
Robbie Krieger And Friends (Blue Note, 1977),
Panic Station (Rhino, 1982) accreditato agli Acid Casualties,
Robbie Krieger (Cafe, 1985),
Versions (Passport, 1983) e No Habla (IRS, 1988), che
dimostrano le sue doti di compassato chitarrista.
Robbie Krieger (Cafe, 1985) contiene, in particolar modo, la jam Noisuf, un
esercizio maniacale e caotico di fusion.
Resta invece irrisolto il dilemma sui meriti individuali. Fu Morrison ad
avvantaggiarsi di un complesso di tutta eccellenza o furono i Doors a
dovere tutto alla personalità del loro "front-man"?
Quel che è certo è che la
formazione dei Doors ha pochi rivali negli annali della storia del rock:
soltanto i Rolling Stones e i Jefferson Airplane poterono vantare tanti
talenti eterogenei e una fusione così spontanea di elementi innovativi.
Furono loro a creare Light My Fire, The End,
When The Music's Over?
O fu
l'improvvisazione a braccio di Morrison a trascinare gli altri, a far
emergere la tecnica individuale e collettiva?
E di chi fu la colpa della crisi?
Di Morrison che aveva perso il controllo
o dei Doors che avevano deciso la svolta commerciale?
Chi fu il vero padrone
delle musiche dei Doors?
Nel 2003, Manzarek e Krieger hanno riformato i Doors con il cantante Ian Astbury dei Cult e il batterista Steward Copeland dei Police.
Nel 2009 è stato presentato al Sundance Film Festival il documentario When You're Strange: a Film About The Doors, per la regia di Tom DiCillo, con la voce narrante di Johnny Depp, con fotografie e filmati inediti riguardanti un arco temporale che va dal 1965 al 1971.
Ray Manzarek è morto di cancro nel maggio 2013, all'età di 74 anni.
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