Summary
Djam Karet were
one of the most original and aggressive acts of their time.
The first test of how avantgarde, psychedelia, progressive-rock and heavy-metal
could be combined in formidable instrumental pieces came with
Reflections From The Firepool (1988). Among echoes of
Pink Floyd, King Crimson, Yes and Hawkwind, Djam Karet developed a personal
style that had no precedents.
The electronic acid-rock of Suspension & Displacement (1991) and
the brutal jazzcore of Burning The Hard City (1991) explored
two sides of that sound.
The Devouring (1997) fused them again, and presented a tight trio,
both magniloquent and seismic, taking on articulate and symphonic pieces
that were both emphatic and baroque,
capable of laying acrobatic bridges between the most disparate genres.
If English is your first language and you could translate my old Italian text, please contact me.
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I Djam Karet si sono formati nel 1984 nei pressi di Los Angeles.
Gayle Ellett e Mike Henderson alle chitarre, Chuck Oken alla batteria, Henry
Osborne al basso imbevono le proprie armonie di effetti elettronici ed
indulgono in eccessi psichedelici.
Nastri ed improvvisazioni chitarristiche vengono usati con una foga
talvolta wagneriana. Prima di incorporare Ellett
si chiamavano Happy Cancer e suonavano jazz-rock, e quelle origini sono alla
base del loro sound.
Il loro e` infatti innanzitutto un gruppo di improvvisazione totale.
La loro prima cassetta, No Commercial Potential (HC),
contiene tre jam improvvisate in studio nell'aprile del 1985.
Where's L.Ron si apre con rumori di percussioni metalliche,
mentre le chitarre e il basso emettono di quando in quando degli accordi
sparuti; poi le chitarre incominciano a tessere fraseggi sempre piu`
psichedelici, che ricordano il Peter Green di End Of The Game,
e Oken imbastisce una cadenza frenetica di piatti che presto
trascina anche le chitarre in una danza infuocata.
Blue Fred e` piu` rappresentativa di cio` che succedeva davvero dal vivo:
i rumori inorganici centellinati dai vari strumenti coagulano poco a poco
in un sound ricco e vigoroso che a tratti ricorda le jam del "southern rock",
a tratti il jazz di Steve Tibbetts, a tratti gli acquarelli atmosferici
di certi musicisti ECM.
La chitarra di Ellett e` petulante come il piu` logorroico dei discepoli
di Hendrix.
(The CD reissue contains three more jams, notably
the 20-minute The Building and
the 27-minute The Window).
La musica di questo periodo e` fortemente influenzata dal rock progressivo
degli anni '70 (Pink Floyd, King Crimson, Genesis, Yes).
Acquisite le tastiere elettroniche e una chitarra-sintetizzatore,
nel febbraio del 1987 il quartetto registro` la seconda cassetta,
The Ritual Continues.
Suggestionati dalle armonie della musica orientale, e in particolare dalla
ripetizione di figure elementari, i Djam Karet espandono i loro orizzonti
armonici.
L'opera e` strutturata in otto episodi piu` brevi e
misurati. La concisione toglie un po' di grinta al quartetto, ma giova al quadro
d'assieme, che risulta meno tetragono e piu` articolato.
Shaman's Descent, che unisce la violenza tipica dello stile chitarristico di
Tibbetts con arrangiamenti piu` atmosferici e venature palesemente orientali,
funge da tratto d'unione con le jam del primo periodo; ma
la vera novita` del nuovo corso sta nel fitto crepitio di suoni della natura
che costituisce la struttura portante di A Quiet Place, poi sublimata da una
"preghiera" elettronica alla Kitaro; e ancor piu` nello stile collagistico di
The Black River, che amalgama il suono di un martello pneumatico, versi di
uccelli tropicali, dissonanze elettroniche, distorsioni chitarristiche
e una voce campionata, e avrebbe ben figurato sull'Unnagumma dei Pink Floyd.
La title-track e` un raga
che viene presto inghiottito in una violenta improvvisazione della
chitarra-synth di Ellett; in A City With Two Tales una lunga trance di
tribalismo equatoriale alla Jon Hassell e` punteggiata da sirene e fruscii
elettronici; e con gli effetti trascendenti di Familiar Winds il quartetto
sconfina in territorio new age.
Nell'insieme questo e` gia`
uno dei massimi esempi di progressive-rock degli anni Ottanta, una summa
di linguaggi musicali esplorati da King Crimson, Grateful Dead, Allman
Brothers, la scuola di Canterbury e chiunque altro abbia improvvisato in
chiave rock.
Durante le sedute di Ritual i Djam Karet registrarono anche una jam di 25
minuti, Walkabout, che sara` inserita nel 1988 sulla cassetta
Kafka's Breakfast (Auricle Music), insieme a un estratto degli Happy Cancer.
Walkabout e` un ritorno alle lunghe jam improvvisate degli esordi, con
le chitarre duali di Ellett e Henderson in evidenza, ma anche con un ritmo molto
piu` marcato che a tratti da` luogo a sequenze mozzafiato, di una tensione
spasmodica, in cui si incrociano i segnali intermittenti di Interstellar
Overdrive (Pink Floyd) e i deliri sincopati di Close To The Edge (Yes).
Nell'estate del 1988 il gruppo allestisce un vero e proprio studio di
registrazione (le cassette precedenti erano state registrate dal vivo, senza
overdub) e nei sei mesi successivi registra Reflections From The Firepool (HC),
il primo disco. E' un'opera ancor piu` concettuale (tutti i brani superano i
sei minuti) che si
avvale anche di un sequencer e di percussioni elettroniche, a completare un
arsenale assai sofisticato di strumenti non acustici.
L'ispirazione di base e` pero` ancora la stessa: il rock progressivo europeo
degli anni '70: nella seconda parte di The Sky Opens Twice, per esempio,
ci sono gli accordi in crescendo di chitarra che fanno subito pensare alle
litanie dei Pink Floyd, ci sono i tintinni ripetitivi del raga-rock,
l'elettronica atmosferica dei Tangerine Dream e le atmosfere magiche dei
Genesis; accenni di flash-rock (EL&P e Yes) si possono riscontrare in
Run Cerberus Run;
i King Crimson piu` "duri" si nascondono dietro l'incedere marziale e cupo di
Scenes From The Electric Circus e le sue complesse armonie.
Che i Djam Karet riescano a migliorare l'originale e` dimostrato
da brani come Animal Origin, la cui architettura e` molto piu` subdola di
quanto sembri (figure minimaliste sono stratificati nelle tracce dei vari
strumenti), ma il cui incedere magniloquente si addice all'overture di un
concept del periodo neo-romantico.
Il punto di forze del disco sta proprio nell'equilibrio fra la componente
sperimentale (cosmico-psichedelica, jazz-rock, ambientale-minimalista)
e quella rock and roll.
Per quanto Reflections sia il tipico album di consolidamento di uno stile
che si e` venuto definendo negli anni, i Djam Karet non smettono affatto di
sperimentare: il concerto per glissando di Fall Of The Monkeywalk usa un
fitto tappeto di percussioni africane ed effetti sonori di varia natura;
gli assoli di chitarra si sono fatti cosi` violenti da rasentare l'heavymetal,
come in The Red Monk;
All Doors Look Alike e` cullata dal jingle-jangle delle chitarre in
un'atmosfera onirica e poi lasciata affondare in uno strato di echi
elettronici solcato da soavi accordi di chitarra acustica.
La title-track e` un capolavoro di sutura: accordi "cosmici" di chitarra ed
elettronica, scrosci di pioggia, quattro minuti di delirio di chitarra
elettrica e un finale all'insegna di un flamenco sommesso.
Il collage piu` sperimentale della loro carriera e` forse quello che compare
sulla compilation Dali: The Endless Enigma (Coriolis): Inventions Of The
Monsters.
Nel settembre del 1991 quel carisma viene confermato dall'uscita simultanea
di due dischi (entrambi di settata minuti), che sostanzialmente separano le
due anime che Reflections aveva fuso cosi` bene, quella sperimentale e
quella rock. A Suspension & Displacement (HC) spetta la prima, a
Burning The Hard City la seconda.
Se Dark Clouds No Rain (undici minuti), con il suo incedere raga, le fasce
elettroniche che vanno e vengono, i droni cosmici di fondo, i tintinni
celestiali e i rumori naturali, sembra ammiccare al sound rilassante
della musica new age elettronica (grazie anche all'uso sofisticato di loop, che
stravolgono completamente il timbro della chitarra fino
a farla sembrare un sintetizzatore); se molti dei brani piu` brevi
(Angels Without Wings, con il suo spessore sinfonico, e Severed Moon, con
il suo finale di fantasmi per elettronica e chitarra acustica) aggiornano
gli acquarelli "ambientali" di Brian Eno e le sinfonie "cosmiche" dei tedeschi
alle tecniche di produzione della new age;
una lussureggiante e lambiccata revisione di A City With Two Tales
e la suite Erosion (quasi tredici minuti di minimalismo "rileyiano" sempre
piu` ossessivo e sempre piu` intricato e una delle loro composizioni piu`
"serie" di sempre) danno la misura di quanto si sia sofisticata la loro
tecnica di arrangiamento.
Tutto il contrario Burning The Hard City (HC, 1991),
che risulta anzi ancor piu` rock dei brani piu` "duri" di Reflections.
I sette violenti eccessi sonori di questo
disco (durata media: dieci minuti l'uno) appartengono a un registro
quasi heavy-metal. Vi troneggia la chitarra elettrica, con i suoi
riff e le sue distorsioni. Piu` articolata e ariosa in At The Mountains Of
Madness,
cupa e marziale in Province 19: The Visage of War (reminescente di
21st Schizoid Man, uno dei loro capolavori),
melodiosa e blues nella title-track (ma con una serie di
riff fulminei verso la fine), e sempre avvinta al modello degli Yes
(soprattutto in Grooming The Psychosis), la musica e` comunque parente di
cio` che fanno Joe Baiza (Universal Congress) e Greg Ginn (Gone) in altri
ambiti.
Cio` che rende unico questo album e` l'insolita fusione fra un furore quasi
bestiale e una duttile arte narrativa. Da un lato ciascun pezzo e` una "storia"
che percorre diversi episodi, e dall'altro i passaggi musicali sono concentrati
di tensione e rabbia.
Nel 1993 il chitarrista Ellett, in compagnia del tastierista Gardner Graber,
raccoglie su Music For Televisions (Emerald Productions) le musiche scritte
nell'arco di tre anni per un paio di show televisivi, rivelando
la vera fonte dell'enciclopedismo dei Djam Karet. Si tratta di brani strumentali
atmosferici, molto meno sperimentali di quelli del complesso maggiore, ma
abilmente impastati di chitarrismo heavymetal, cadenze reggae e timbri surf.
I risultati sono spesso spettacolari: Big Waves e` un ibrido di ouverture
orchestrale alla Zappa, di new age e di disco-music; First Base e` una serie
di mutazioni di musica industriale forgiata nella violenza bruta
dell'heavymetal; Cruisin' e` un salmo funky e jazzrock.
E se in Aluminum e Danana Ellett sfoga l'esibizionismo macho
dell'heavymental; se in Vibramonrastation il duo indulge in vezzi reggae;
se It's All Behind Me Now strizza l'occhio al pop da classifica;
una dovizia di temi grotteschi infioretta "novelty" come Cowabunga,
Rep Vacation ed Equestrian Boogeyman, che alla fine risultano anche i
brani piu`
godibili. Su tutto trionfa il carillon tropicale di Colour Light, il pezzo
piu` "buffo" dell'intera raccolta. E l'insieme va in gloria come uno degli
album strumentali piu` atipici di sempre.
Collaborator (HC, 1994)
e` una serie di collaborazioni con altri musicisti (per lo piu` elettronici)
che prende lo spunto da Suspension.
Accentuando la qualita` "digitale" del
sound a livelli calligrafici, i Djam Karet finiscono pero` per perdere
la loro identita` e sconfinare in piena elettronica quasi new age, spaziando
dall'etno-minimalismo di Jon Hassell in Gondwanaland (con Kit Watkins)
all'affresco turbolento di The Anointing Of The Sick (con Jeff Greinke).
Dominano il disco le atmosfere sinistre e spaziali di Moorings,
Cliff Spirits e Fearful Void, dove l'elettronica scopre le trame piu` tetre.
The Devouring (Cuneiform, 1997) e` un altro disco monumentale
che li conferma fra i massimi musicisti "totali" del nostro tempo, capaci
di costruire ponti acrobatici fra i generi piu` disparati e di elaborate
improvvisazioni su tema. I tre sono migliorati su tutti i fronti. I
poliritmi massacranti di Chuck Oken e le schitarrate logorroiche di Gayle
Ellett creano le fondamenta e le impalcature, poi gli arrangiamenti stratificano
piani e piani di suoni, pescando inun arsenale di tastiere, campionamenti e
percussioni esotiche.
Le composizioni (quasi sempre di sette/otto minuti) sono al tempo stesso piu`
articolare e piu` meccaniche.
Per esempio, le metamorfosi di Night Of The Mexican Goat Sucker seguono
un ciclo continuo che
che dalla jam di heavy-metal reboante porta all'epico tema e fuga barocche
delle tastiere e poi all'assolo "hendrixiano" di chitarra e poi di nuovo al
jamming roccioso.
Gli arrangiamenti raggiungono livelli sinfonici.
L'ouverture di Lost But Not Forgotten, quando si accavallano oboe,
mellotron, organo e sintetizzatore, ha lo spessore di un poema sinfonico di
Strauss.
L'attacco di Lights Over Roswell (ondate minacciose di sintetizzatore,
accordi di basso lasciati vibrare nel vuoto, vortice di sirene)
e` degno di una suite di musica cosmica di Klaus Schulze.
Il marchio di fabbrica dei Djam Karet e` proprio quel riuscire a trasformare
spunti cosi` magniloquenti e dottrinali in grinta rock, scalmanata e
tempestosa, financo tellurica; quel tentare di riconciliare il trascendente e
il prosaico. Con fredda determinazione, con la sicurezza dei classici.
Il raccoglimento intensamente new age di The River Of No Return cede il passo
a una delle jam piu` briose e jazzate, prima di ricadere nella meditazione
con una coda esotica di mellotron a ritmo di caravane.
Nei loro album i Djam Karet amano spesso tratteggiare un percorso, spirituale
prima che musicale. Capita cosi` che nella seconda parte l'atmosfera si faccia
sempre piu` rarefatta: trasuda misticismo il salmo per chitarra di
Myth Of A White Jesus, la melodia lenta e solenne di Room e` degna di
Vangelis, e The Indian Problem e` orchestrata per trance di chitarre
acustiche e sottofondo di respiri umani.
Uno dei brani piu` programmatici, ma anche uno dei piu` spettacolari, e` il
breve Pinzler Method, nel quale i due estremi di astrattismo elettronico e
violenza rock si scoprono facce della stessa medaglia (e in questo il gruppo
deve qualcosa dagli Who): il minimalismo delle tastiere e le acrobazie della
chitarra procedono di pari passo senza interferire ma anzi alimentandosi l'un
l'altro.
Il disco va in gloria con gli undici minuti di Old Soldier's Disease, aperta
da una delle melodie piu` brillanti (doppiata in maniera magistrale al synth)
e poi condotta con maestosa padronanza di mezzi, a passo quasi funereo, verso
un finale criptico, che contrasta con l'inizio esuberante, un ritornello
soave e rassegnato. Qualcuno ci leggera` forse una metafora sulla vita umana,
dall'infanzia alla morte.
Pochi hanno saputo miscelare chitarra elettrica e tastiere elettroniche
con tanta armonia. Da un punto di vista strettamente tecnico, questo e` il
loro disco migliore, e uno dei migliori di tutto il rock progressivo.
Certamente il primo che si spinga cosi` lontano dagli stereotipi di King
Crimson, Yes, Rush, etc.
Fondendo minimalismo, psichedelia, progressive e industriale, i Djam Karet
hanno coniato uno dei linguaggi piu` originali del rock moderno, e ridefinito
il quartetto rock come un formato di sperimentazione intensa. Sono probabilmente
il massimo complesso di rock progressivo dagli anni Ottanta in qua.
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Il Live At Orion (Cuneiform, 1999) giunge all'apice della forma.
Il gruppo scodella un'ora e un quarto di assoli heavy-metal e improvvisazioni
progressive senza che il tempo sembri passare. Ellett e Henderson sono
diventati un singolare incrocio fra Joe Satriani e Neal Schon, capaci di
miscelare con naturalezza i glissando piu` spericolati con le melodie piu`
romantiche.
Chuck Oken non ha nulla da invidiare a macchine del ritmo come Neil Peart,
con il suo stile fluido e verboso.
Il live ha anche il pregio di ripresentare brani della cassetta
The Ritual Continues in fulminante versione digitale :
Technology And Industry (aperto da uno splendido duetto jazzato fra
il basso borbogliante di Henry Osborne e le chitarre scandite in maniera
minimalista),
Shaman's Descent (un tema solare di chitarra in un'atmosfera di
mistero)
e Familiar Winds (un capolavoro di subdoli disturbi chitarristici
e di assoli arroventati su una cadenza psichedelica).
Fra le altre selezioni basta citare
Reflections From The Firepool, tratto dall'album eponimo,
meta` piccola fanfara minimalista e meta` bolero orientaleggiante,
Run Cerberus Run, tratto dallo stesso album, una fuga barocca
alla Yes o EL&P,
Province 19: The Visage of War, tratto da
Burning The Hard City,
e la cervellotica Forbidden By Rule, da Devouring, che starebbe
a meta` strada fra Phish e King Crimson.
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The band is at its creative peak in these extended live improvisations on
pieces taken from their previous albums.
The eight tracks, for a total of 74 minutes, are difficult but entertaining:
Forbidden By Rule, from Devouring, could advertise the
band as a cross between Phish and King crimson;
Province 19: The Visage of War, from Burning The Hard City,
brings to mind a truly schizoid version of 21st Schizoid Man;
and so forth.
A plus is that the CD presents vastly improved versions of several tracks of
the rare The Ritual Continues cassette:
Technology And Industry (boasting a master duet between
Henry Osborne's bass and minimalist guitars)
Shaman's Descent and
Familiar Winds (reminiscent of the kaleidoscopic suites of
psychedelic rock).
Not surprisingly, Reflections From The Firepool and
Run Cerberus Run steal the show, the first one with its slow and
hypnotic pace, the second with its breathtaking fugue a` la ELP&P or Yes:
they both are from
Reflections From The Firepool, Djam Karet's masterpiece and one of
progressive-rock's all-time milestones.
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(Translation by/ Tradotto da Walter Consonni)
L'edizione limitata Still No Commercial Potential (HC, 2000)
è il distillato di una jam-section di sette ore eseguita da un
quartetto che già si colloca tra i più grandi ensembles
di musica improvvisata (rock o jazz) di sempre. I quattro, appena si
sono messi insieme, hanno cominciato a suonare, senza alcun motivo,
chiave e addirittura ritmo preordinati. A dispetto di queste premesse,
il risultato è coesivo ed organico come potrebbe esserlo una
composizione classica. Non sorprende che, data la sua natura
improvvisata, questa musica richiami alla mente anche la musica classica
indiana ed assuma caratteristiche mistiche e trascendentali. In
realtà, questa musica li renderà seguaci della freschezza
dei Phish. Un tintinnio minimalista determina il
ritmo per un lamento di chitarra dilatato alla maniera di un mantra in
No Vacancy At The Hotel Of Noise. In Twilight In Lonely
Lands l'organo di Ellett crea un'atmosfera da chiesa per mezzo di
accordi solenni e rallentati, mentre percussioni simili alle tablas
colmano lo scarno paesaggio sonoro. Room 24 Around Noon continua
l'avanzamento nell'intensità religiosa del raga, introducendo
tuttavia un forte aroma di jazz (si immagini un duetto tra John
McLaughlin e Chick Corea).
Il paesaggio e l'orchestrazione cambiano drammaticamente con The
Black Line, un brano completamente etnico per suoni naturali,
didjeridoo, elettroniche che simulano i flauti, percussioni africane e
feedback chitarristico. Il tour de force di Strange Wine From A
Twisted Fruit (della durata di quasi mezz'ora), mentre diluisce ed
adultera la tecnica aggraziata messa in evidenza nei primi tre brani,
fornisce una visione documentaristica riguardo la loro arte del creare
musica. È superfluo sottolineare come questo sia il loro album
meno "psichedelico".
Il momento determinante della carriera dei Djam Karet è
Devouring mentre Still No Commercial Potential può
essere visto come l'apogeo del manifesto di quell'album: musica
improvvisata che suona austera e sofisticata quanto le composizioni
scritte. I Djam Karet fanno parte tanto della musica classica quanto di
quella rock.
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The limited-edition
Still No Commercial Potential (HC, 2000) is a distillation of
seven hours of jamming by a quartet that already ranks
among the greatest ensembles of improvised (rock or jazz) music ever.
The foursome got together and just started playing, without any predetermined
tune or key or even rhythm.
Despite the premises,
the result is as cohesive and organic as a classical composition could be.
Not surprisingly, given its improvisational nature, the music also recalls
Indian classical music and takes on a mystical and transcendental quality.
In fact, it will make fans of Phish blush.
A minimalist tinkling sets the pace for a dilated, mantra-like guitar wail
in No Vacancy At The Hotel Of Noise.
In Twilight In Lonely Lands
Ellett's organ builds a church atmosphere with solemn and slo-motion chords,
while tablas-like percussions fill the scant soundscape.
Room 24 Around Noon continues the progression into the
religious intensity of the raga, while also injecting a stronger jazz flavor
(imagine a duet between John McLaughlin and Chick Corea).
The landscape and the orchestration shift dramatically with
The Black Line, a pan-ethnic piece for natural sounds, didjeridoo,
flute-like electronics, African percussion and guitar feedback.
The tour de force of Strange Wine From A Twisted Fruit
(almost half an hour long) and, while it dilutes and adulterates
the technique of graceful unfolding set forth in
the first three tracks, it provides a documentary view on their art of
music making.
Needless to say, this is their least "psychedelic" album.
The defining moment of Djam Karet's career was Devouring and
Still No Commercial Potential can be seen as the culmination of
that album's manifesto: improvised music that is as austere and sophisticated
as written compositions.
Djam Karet belong to classical music as much as to rock music.
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(Translation by/ Tradotto da Maria Dolores Perriello)
Maskit Chamber e` un progetto laterale multistrumentale di Gayle
Ellett. Heaven Machine (TMC, 2001) e`, per lo piu`, un tributo personale
alle tastiere analogiche. Ellet le prova in tutte le combinazioni e in
tutti gli stili, da Italian Horror Movie Soundtrack al solenne tema
Vangelisiano di Mosaic 2000, dalla world-music di Free Tibet al funky
alla ZZ Top di 6% Solution. I bozzetti melodici sono arrangiati con
evidente piacere, ma, eccetto che per il retrofuturista 6% Solution,
non riescono a definire una vera e propria personalita` musicale.
4th Wave (TMC, 2001) e` una composizione di 50minuti. Si apre con un
sound da suspense nel deserto alla maniera di Steve Roach, subito
attraversato da Ellett con un tema mediterraneo, una melodia
chitarristica alla maniera di Mike Oldfield. Dopo circa otto minuti
ecco che si presenta un nuovo scenario, un oscuro, rimbombante
panorama di suoni dal quale si leva la celestiale melodia del
sintetizzatore. Dopo una lunga e statica sezione di ronzii carezzevoli,
una brezza elettronica introduce un delicato arpeggio di chitarra.
Lentamente il panorama fiorisce di cori angelici, melodie zen, fastosi
archi. L’ascoltatore č trasportato nella giungla, poi fuori dallo
spazio, e poi ancora dentro il tempo. Il suono scompare e la corsa
giunge al suo capolinea in una terra desolata. Una spruzzatina di
Ennio Morricone su musica New Age, ed ecco che Ellett ha composto
l'equivalente musicale di un racconto delle fate.
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Maskit Chamber is multi-instrumentalist Gayle Ellett's side project.
Heaven Machine (TMC, 2001) is, mostly, a personal tribute to
analog keyboards. Ellett tries them in all combinations and styles,
from the Italian Horror Movie Soundtrack
to the solemn Vangelis-ian theme of Mosaic 2000,
from the world-music of Free Tibet to the funky ZZ Top-ish
6% Solution.
The melodic vignettes are arranged with gusto, but, except for the
retro-futurist 6% Solution, they fail to establish a musical persona.
The 4th Wave (TMC, 2001) is a 50-minute composition. It opens with a
desert-suspense sound a` la Steve Roach that Ellett soon crosses with a guitar-based melodic, mediterranean theme a` la Mike Oldfield. After about eight minutes, a new scenario is presented, a dark, rumbling soundscape from which a
celestial synth melody soars. After a long, static section of soothing drones,
an electronic breeze introduces a delicate guitar strum. Slowly,
the landscape blooms, filled with angelic choirs, zen melodies,
majestic strings. The listener is transported into the jungle and then out of
space, or back in time. Sound disappears and the journey has reached a desolate
land.
A bit of Ennio Morricone sprinkled over new age music allows Ellett to
compose the musical equivalent of a fairy tale.
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(Translation by/ Tradotto da Walter Consonni)
New Dark Age (Cuneiform, 2001) dei Djam Karet porta per la prima
volta alla ribalta le tastiere elettroniche. Inaugura inoltre un suono
più asciutto, semplice e delicato.
Nell'insieme, l'album si presente come un lavoro alquanto minore, un
divertissment da parte di un autore in vacanza all'estero. È
difficile riconoscere la band nelle allegre e quasi bisbigliate No
Man's Land e Going Home (una composizione musicale King
Crimsoniana di dieci minuti). La jam funk/blues All Clear
è un ibrido tra i Blues
Traveler ed una surf band.
In veramente pochi casi i Djam Karet raggiungono lo standard dei loro
capolavori del passato. Persino l'angosciosa Web of Medea
è contaminata da sfumature lounge-jazz convenzionali. Il processo
creativo della band si scatena solo nei brevi interludi elettronici
(Eclipse Of Faith, Demon Train, Kali's
Indifference, Eulogy) ed in due prolisse composizioni che
hanno poco o niente in comune con la loro esuberanza del passato,
entrambe ipnotiche, esotiche, atmosferiche ed estasiate: Raising
Orpheus e Alone With The River Man. Non vi sono dubbi che in
questo album ogni nota sia raffinata ed al posto giusto, ma il risultato
non è altro che muzak da sottofondo.
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Djam Karet's New Dark Age (Cuneiform, 2001) marks the promotion of
electronic keyboards to the forefront. It also inaugurates a leaner, simpler,
gentler sound. Overall, it sounds like a very minor work, a divertissment by
an auteur on holiday abroad.
It is hard to recognize the band in the upbeat and almost hummable
No Man's Land and
Going Home (a ten minute King Crimson-ian opus).
The funk/blues jam All Clear is a hybrid of the
Blues Traveler and a surf band.
Djam Karet rarely rises to the standard of their past masterpieces. Even the
angst-ridden Web of Medea is marred by conventional lounge-jazz nuances.
The band's creative process is given free reins only in the
short electronic interludes (Eclipse Of Faith, Demon Train,
Kali's Indifference, Eulogy) and in two lengthy compositions
that have little or nothing in common with their past exuberance, both
hypnotic, exotic, atmospheric, trancey: Raising Orpheus and
Alone With The River Man.
No doubt every note on this album is elegant and competent, but the effect is
that of background muzak.
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(Clicka qua per la versione Italiana)
The synthesizer was prominent on
A Night for Baku (Cuneiform, 2003), containing Hungry Ghost and
The Red Thread, and
Recollection Harvest (Cuneiform, 2005), containing
The Packing House and The Gypsy & The Hegemon,
but was replaced by a roaring
Colosseum-style
organ on
The Heavy Soul Sessions (HC, 2010), a set of old instrumentals recorded
live-in-the-studio with no overdubbing.
Oken's and Ellett's side-project Ukab Maerd engaged in electronic and digital
ambient music on The Waiting Room (2010).
The Cave (23:35) is an intellectual version of slow-paced, relaxing,
lounge muzak with
Middle-Eastern percussion. Its main asset is the contrast between
the warm tones of the analog synthesizers collide with the cold tones of the
digital dissonances.
The bleak drone of
White Light No Heat (11:28) evokes arctic winds but suddenly the music
morphs into bouncing synth-pop.
Other ominous drones surface in God's Elastic Acre (18:16), but none
makes an impact.
The cinematic and impressionistic Sati & The Trainman (11:14) resurrects
memories of vintage
Tonto's Expanding Head Band.
All in all, the project sounds still a bit amateurish.
Meanwhile, guitarist Mike Henderson debuted solo with
White Arrow Project (HC Productions, 2010), a collection of
atmospheric songs that focus on a surprisingly conventional
style: synth-augmented country-pop.
Ellett's acoustic duo Fernwood released
albums of impressionistic and cinematic vignettes:
Fernwood (2007),
Almeria (2008),
Sangita (2009) and
Arcadia (2015), that contains the gentle
multi-ethnic instrumental lullaby Bells Spring.
Henderson and Oken released Dream Theory In The IE (Firepool, 2011),
a collection of lengthy atmospheric instrumental pieces: the
hypnotic, repetitive Alive Enough?, the
melodic, exotic Forgotten Spirits,
the dissonant electronic collage of Dream Theory in the IE,
the magniloquent and ecstatic When All The Birds Die Away,
regurgitating ghost voices of the jungle,
and especially the feverish, tribal suspense of Zombie Attack.
The 25-minute John Henry Changes The Rules is the most "narrative" piece,
opening with a lighter and more chromatic form of minimalism and then letting
the guitar intone a celestial hymn.
Djam Karet's keyboardist Gayle Ellett and guitarist Mike Murray formed
Hillmen with
Peter Hillman (drums) and Ralph Rivers (bass).
The Whiskey Mountain Sessions (Firepool, 2011)
contains four lengthy jams that explore
downtempo jazz-rock with psychedelic overtones
in Lights On The Bay (highlighted by a captivating solo of space guitar)
and exuberant propulsive Latin-tinged dance-rock in Summer Days.
Both the psychedelic and the Latin accents permeate the 16-minute The Fire Burns, reminiscent of countless instrumental fusion styles of the 1970s to
the point of sounding like an elegant and erudite synthesis or tribute of sorts to the post-Miles Davis age.
Djam Karet's The Trip (2013) contains one massive composition,
The Trip. It begins with
retro-futuristic synthesizers and cosmic droning electronica, then it wanders
through free-floating guitar-driven mindscapes. When this relatively austere
section implodes, it is swept away by a cold wind and replaced with a folkish
melodic theme a` la Leo Kottke. That mood
decays into a trance dotted with electronic invocations and then into a gothic
sequence of eerie human and machine sounds. Finally a choir emerges to signal
the return to earthly consciousness and a classic power-trio jam takes over
and leads to the closing reprise of the folkish leitmotiv.
In the era of glitch music, dubstep, etc this suite inevitably sounds nostalgic,
bringing back memories of
Mike Oldfield and
Klaus Schulze.
Regenerator 3017 (2014) is almost the mirror opposite of The Trip,
a much more lightweight collection of relaxed pieces.
There is no denying the magisterial elegance of the combo, notably the
smooth solos in Living in the Future Past, the
melodic grace of Desert Varnish,
but the mood is often a bit too somnolent (Wind Pillow).
The poppy lullaby Lost Dreams and the romantic fantasia
On the Edge of the Moon are hardly what one expect from a progressive
group, no matter how well executed; but then maybe that was the whole point.
Sonic Celluloid (2017), heavy on synthesizers and more focused on
melodies than on arrangements, certainly doesn't have the power and inspiration
of their best works. Saul Says So builds up
sinister suspense with an expert blend of jazz-rock, minimalism and new-age,
culminating with an atmospheric Mediterranean guitar;
No Narration Needed agonizes with
dreamy trumpet, synth invocation and angelic choir before settling for the
folkish motif of the acoustic guitar.
This is their most "gentle" album, well represented by the
flute melody of the closing The Denouement Device.
Exotic instrument such as dilruba, mbira and udu
A Sky Full Of Stars For A Roof (HC Productions, 2019)
hijack the crunchy jazz-rock jam Beyond The Frontier
and the breezy dance of Long Ride To Eden
The eleven-minute soundscape A Sky Full Of Stars For A Roof is perhaps
too focused on the timbral aspects and the atmosphere.
The gentle guitar melodies of Dust In The Sun and Specter Of Twilight further shift the center of mass towards a relaxed new-age style.
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