Djam Karet
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No Commercial Potential , 6/10
The Ritual Continues, 6.5/10
Kafka's Breakfast, 6/10
Reflections From The Firepool, 8/10
Suspension & Displacement , 7/10
Burning The Hard City , 7/10
Music For Televisions , 6.5/10
Collaborator , 6/10
The Devouring , 7/10
Still No Commercial Potential, 6/10
Maskit Chamber: Heaven Machine , 5/10
Maskit Chamber: The 4th Wave , 6/10
New Dark Age , 6/10
A Night for Baku (2003), 5/10
Recollection Harvest (2005), 5/10
The Heavy Soul Sessions (2010), 5/10
Henderson and Oken: Dream Theory In The IE (2011) , 5.5/10
Hillmen: The Whiskey Mountain Sessions (2011), 6/10
The Trip (2013), 6/10
Regenerator 3017 (2014), 5/10
Sonic Celluloid (2017), 4/10
A Sky Full Of Stars For A Roof (2019), 4/10
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Summary
Djam Karet were one of the most original and aggressive acts of their time. The first test of how avantgarde, psychedelia, progressive-rock and heavy-metal could be combined in formidable instrumental pieces came with Reflections From The Firepool (1988). Among echoes of Pink Floyd, King Crimson, Yes and Hawkwind, Djam Karet developed a personal style that had no precedents. The electronic acid-rock of Suspension & Displacement (1991) and the brutal jazzcore of Burning The Hard City (1991) explored two sides of that sound. The Devouring (1997) fused them again, and presented a tight trio, both magniloquent and seismic, taking on articulate and symphonic pieces that were both emphatic and baroque, capable of laying acrobatic bridges between the most disparate genres.
If English is your first language and you could translate my old Italian text, please contact me.
I Djam Karet si sono formati nel 1984 nei pressi di Los Angeles. Gayle Ellett e Mike Henderson alle chitarre, Chuck Oken alla batteria, Henry Osborne al basso imbevono le proprie armonie di effetti elettronici ed indulgono in eccessi psichedelici. Nastri ed improvvisazioni chitarristiche vengono usati con una foga talvolta wagneriana. Prima di incorporare Ellett si chiamavano Happy Cancer e suonavano jazz-rock, e quelle origini sono alla base del loro sound. Il loro e` infatti innanzitutto un gruppo di improvvisazione totale.

La loro prima cassetta, No Commercial Potential (HC), contiene tre jam improvvisate in studio nell'aprile del 1985. Where's L.Ron si apre con rumori di percussioni metalliche, mentre le chitarre e il basso emettono di quando in quando degli accordi sparuti; poi le chitarre incominciano a tessere fraseggi sempre piu` psichedelici, che ricordano il Peter Green di End Of The Game, e Oken imbastisce una cadenza frenetica di piatti che presto trascina anche le chitarre in una danza infuocata.
Blue Fred e` piu` rappresentativa di cio` che succedeva davvero dal vivo: i rumori inorganici centellinati dai vari strumenti coagulano poco a poco in un sound ricco e vigoroso che a tratti ricorda le jam del "southern rock", a tratti il jazz di Steve Tibbetts, a tratti gli acquarelli atmosferici di certi musicisti ECM. La chitarra di Ellett e` petulante come il piu` logorroico dei discepoli di Hendrix.
(The CD reissue contains three more jams, notably the 20-minute The Building and the 27-minute The Window).

La musica di questo periodo e` fortemente influenzata dal rock progressivo degli anni '70 (Pink Floyd, King Crimson, Genesis, Yes).

Acquisite le tastiere elettroniche e una chitarra-sintetizzatore, nel febbraio del 1987 il quartetto registro` la seconda cassetta, The Ritual Continues. Suggestionati dalle armonie della musica orientale, e in particolare dalla ripetizione di figure elementari, i Djam Karet espandono i loro orizzonti armonici.
L'opera e` strutturata in otto episodi piu` brevi e misurati. La concisione toglie un po' di grinta al quartetto, ma giova al quadro d'assieme, che risulta meno tetragono e piu` articolato. Shaman's Descent, che unisce la violenza tipica dello stile chitarristico di Tibbetts con arrangiamenti piu` atmosferici e venature palesemente orientali, funge da tratto d'unione con le jam del primo periodo; ma la vera novita` del nuovo corso sta nel fitto crepitio di suoni della natura che costituisce la struttura portante di A Quiet Place, poi sublimata da una "preghiera" elettronica alla Kitaro; e ancor piu` nello stile collagistico di The Black River, che amalgama il suono di un martello pneumatico, versi di uccelli tropicali, dissonanze elettroniche, distorsioni chitarristiche e una voce campionata, e avrebbe ben figurato sull'Unnagumma dei Pink Floyd.
La title-track e` un raga che viene presto inghiottito in una violenta improvvisazione della chitarra-synth di Ellett; in A City With Two Tales una lunga trance di tribalismo equatoriale alla Jon Hassell e` punteggiata da sirene e fruscii elettronici; e con gli effetti trascendenti di Familiar Winds il quartetto sconfina in territorio new age.
Nell'insieme questo e` gia` uno dei massimi esempi di progressive-rock degli anni Ottanta, una summa di linguaggi musicali esplorati da King Crimson, Grateful Dead, Allman Brothers, la scuola di Canterbury e chiunque altro abbia improvvisato in chiave rock.

Durante le sedute di Ritual i Djam Karet registrarono anche una jam di 25 minuti, Walkabout, che sara` inserita nel 1988 sulla cassetta Kafka's Breakfast (Auricle Music), insieme a un estratto degli Happy Cancer. Walkabout e` un ritorno alle lunghe jam improvvisate degli esordi, con le chitarre duali di Ellett e Henderson in evidenza, ma anche con un ritmo molto piu` marcato che a tratti da` luogo a sequenze mozzafiato, di una tensione spasmodica, in cui si incrociano i segnali intermittenti di Interstellar Overdrive (Pink Floyd) e i deliri sincopati di Close To The Edge (Yes).

Nell'estate del 1988 il gruppo allestisce un vero e proprio studio di registrazione (le cassette precedenti erano state registrate dal vivo, senza overdub) e nei sei mesi successivi registra Reflections From The Firepool (HC), il primo disco. E' un'opera ancor piu` concettuale (tutti i brani superano i sei minuti) che si avvale anche di un sequencer e di percussioni elettroniche, a completare un arsenale assai sofisticato di strumenti non acustici. L'ispirazione di base e` pero` ancora la stessa: il rock progressivo europeo degli anni '70: nella seconda parte di The Sky Opens Twice, per esempio, ci sono gli accordi in crescendo di chitarra che fanno subito pensare alle litanie dei Pink Floyd, ci sono i tintinni ripetitivi del raga-rock, l'elettronica atmosferica dei Tangerine Dream e le atmosfere magiche dei Genesis; accenni di flash-rock (EL&P e Yes) si possono riscontrare in Run Cerberus Run; i King Crimson piu` "duri" si nascondono dietro l'incedere marziale e cupo di Scenes From The Electric Circus e le sue complesse armonie.
Che i Djam Karet riescano a migliorare l'originale e` dimostrato da brani come Animal Origin, la cui architettura e` molto piu` subdola di quanto sembri (figure minimaliste sono stratificati nelle tracce dei vari strumenti), ma il cui incedere magniloquente si addice all'overture di un concept del periodo neo-romantico. Il punto di forze del disco sta proprio nell'equilibrio fra la componente sperimentale (cosmico-psichedelica, jazz-rock, ambientale-minimalista) e quella rock and roll.
Per quanto Reflections sia il tipico album di consolidamento di uno stile che si e` venuto definendo negli anni, i Djam Karet non smettono affatto di sperimentare: il concerto per glissando di Fall Of The Monkeywalk usa un fitto tappeto di percussioni africane ed effetti sonori di varia natura; gli assoli di chitarra si sono fatti cosi` violenti da rasentare l'heavymetal, come in The Red Monk; All Doors Look Alike e` cullata dal jingle-jangle delle chitarre in un'atmosfera onirica e poi lasciata affondare in uno strato di echi elettronici solcato da soavi accordi di chitarra acustica. La title-track e` un capolavoro di sutura: accordi "cosmici" di chitarra ed elettronica, scrosci di pioggia, quattro minuti di delirio di chitarra elettrica e un finale all'insegna di un flamenco sommesso.

Il collage piu` sperimentale della loro carriera e` forse quello che compare sulla compilation Dali: The Endless Enigma (Coriolis): Inventions Of The Monsters.

Nel settembre del 1991 quel carisma viene confermato dall'uscita simultanea di due dischi (entrambi di settata minuti), che sostanzialmente separano le due anime che Reflections aveva fuso cosi` bene, quella sperimentale e quella rock. A Suspension & Displacement (HC) spetta la prima, a Burning The Hard City la seconda.
Se Dark Clouds No Rain (undici minuti), con il suo incedere raga, le fasce elettroniche che vanno e vengono, i droni cosmici di fondo, i tintinni celestiali e i rumori naturali, sembra ammiccare al sound rilassante della musica new age elettronica (grazie anche all'uso sofisticato di loop, che stravolgono completamente il timbro della chitarra fino a farla sembrare un sintetizzatore); se molti dei brani piu` brevi (Angels Without Wings, con il suo spessore sinfonico, e Severed Moon, con il suo finale di fantasmi per elettronica e chitarra acustica) aggiornano gli acquarelli "ambientali" di Brian Eno e le sinfonie "cosmiche" dei tedeschi alle tecniche di produzione della new age; una lussureggiante e lambiccata revisione di A City With Two Tales e la suite Erosion (quasi tredici minuti di minimalismo "rileyiano" sempre piu` ossessivo e sempre piu` intricato e una delle loro composizioni piu` "serie" di sempre) danno la misura di quanto si sia sofisticata la loro tecnica di arrangiamento.

Tutto il contrario Burning The Hard City (HC, 1991), che risulta anzi ancor piu` rock dei brani piu` "duri" di Reflections. I sette violenti eccessi sonori di questo disco (durata media: dieci minuti l'uno) appartengono a un registro quasi heavy-metal. Vi troneggia la chitarra elettrica, con i suoi riff e le sue distorsioni. Piu` articolata e ariosa in At The Mountains Of Madness, cupa e marziale in Province 19: The Visage of War (reminescente di 21st Schizoid Man, uno dei loro capolavori), melodiosa e blues nella title-track (ma con una serie di riff fulminei verso la fine), e sempre avvinta al modello degli Yes (soprattutto in Grooming The Psychosis), la musica e` comunque parente di cio` che fanno Joe Baiza (Universal Congress) e Greg Ginn (Gone) in altri ambiti. Cio` che rende unico questo album e` l'insolita fusione fra un furore quasi bestiale e una duttile arte narrativa. Da un lato ciascun pezzo e` una "storia" che percorre diversi episodi, e dall'altro i passaggi musicali sono concentrati di tensione e rabbia.

Nel 1993 il chitarrista Ellett, in compagnia del tastierista Gardner Graber, raccoglie su Music For Televisions (Emerald Productions) le musiche scritte nell'arco di tre anni per un paio di show televisivi, rivelando la vera fonte dell'enciclopedismo dei Djam Karet. Si tratta di brani strumentali atmosferici, molto meno sperimentali di quelli del complesso maggiore, ma abilmente impastati di chitarrismo heavymetal, cadenze reggae e timbri surf. I risultati sono spesso spettacolari: Big Waves e` un ibrido di ouverture orchestrale alla Zappa, di new age e di disco-music; First Base e` una serie di mutazioni di musica industriale forgiata nella violenza bruta dell'heavymetal; Cruisin' e` un salmo funky e jazzrock.
E se in Aluminum e Danana Ellett sfoga l'esibizionismo macho dell'heavymental; se in Vibramonrastation il duo indulge in vezzi reggae; se It's All Behind Me Now strizza l'occhio al pop da classifica; una dovizia di temi grotteschi infioretta "novelty" come Cowabunga, Rep Vacation ed Equestrian Boogeyman, che alla fine risultano anche i brani piu` godibili. Su tutto trionfa il carillon tropicale di Colour Light, il pezzo piu` "buffo" dell'intera raccolta. E l'insieme va in gloria come uno degli album strumentali piu` atipici di sempre.

Collaborator (HC, 1994) e` una serie di collaborazioni con altri musicisti (per lo piu` elettronici) che prende lo spunto da Suspension. Accentuando la qualita` "digitale" del sound a livelli calligrafici, i Djam Karet finiscono pero` per perdere la loro identita` e sconfinare in piena elettronica quasi new age, spaziando dall'etno-minimalismo di Jon Hassell in Gondwanaland (con Kit Watkins) all'affresco turbolento di The Anointing Of The Sick (con Jeff Greinke). Dominano il disco le atmosfere sinistre e spaziali di Moorings, Cliff Spirits e Fearful Void, dove l'elettronica scopre le trame piu` tetre.

The Devouring (Cuneiform, 1997) e` un altro disco monumentale che li conferma fra i massimi musicisti "totali" del nostro tempo, capaci di costruire ponti acrobatici fra i generi piu` disparati e di elaborate improvvisazioni su tema. I tre sono migliorati su tutti i fronti. I poliritmi massacranti di Chuck Oken e le schitarrate logorroiche di Gayle Ellett creano le fondamenta e le impalcature, poi gli arrangiamenti stratificano piani e piani di suoni, pescando inun arsenale di tastiere, campionamenti e percussioni esotiche.
Le composizioni (quasi sempre di sette/otto minuti) sono al tempo stesso piu` articolare e piu` meccaniche. Per esempio, le metamorfosi di Night Of The Mexican Goat Sucker seguono un ciclo continuo che che dalla jam di heavy-metal reboante porta all'epico tema e fuga barocche delle tastiere e poi all'assolo "hendrixiano" di chitarra e poi di nuovo al jamming roccioso.
Gli arrangiamenti raggiungono livelli sinfonici. L'ouverture di Lost But Not Forgotten, quando si accavallano oboe, mellotron, organo e sintetizzatore, ha lo spessore di un poema sinfonico di Strauss. L'attacco di Lights Over Roswell (ondate minacciose di sintetizzatore, accordi di basso lasciati vibrare nel vuoto, vortice di sirene) e` degno di una suite di musica cosmica di Klaus Schulze.
Il marchio di fabbrica dei Djam Karet e` proprio quel riuscire a trasformare spunti cosi` magniloquenti e dottrinali in grinta rock, scalmanata e tempestosa, financo tellurica; quel tentare di riconciliare il trascendente e il prosaico. Con fredda determinazione, con la sicurezza dei classici. Il raccoglimento intensamente new age di The River Of No Return cede il passo a una delle jam piu` briose e jazzate, prima di ricadere nella meditazione con una coda esotica di mellotron a ritmo di caravane.
Nei loro album i Djam Karet amano spesso tratteggiare un percorso, spirituale prima che musicale. Capita cosi` che nella seconda parte l'atmosfera si faccia sempre piu` rarefatta: trasuda misticismo il salmo per chitarra di Myth Of A White Jesus, la melodia lenta e solenne di Room e` degna di Vangelis, e The Indian Problem e` orchestrata per trance di chitarre acustiche e sottofondo di respiri umani. Uno dei brani piu` programmatici, ma anche uno dei piu` spettacolari, e` il breve Pinzler Method, nel quale i due estremi di astrattismo elettronico e violenza rock si scoprono facce della stessa medaglia (e in questo il gruppo deve qualcosa dagli Who): il minimalismo delle tastiere e le acrobazie della chitarra procedono di pari passo senza interferire ma anzi alimentandosi l'un l'altro.
Il disco va in gloria con gli undici minuti di Old Soldier's Disease, aperta da una delle melodie piu` brillanti (doppiata in maniera magistrale al synth) e poi condotta con maestosa padronanza di mezzi, a passo quasi funereo, verso un finale criptico, che contrasta con l'inizio esuberante, un ritornello soave e rassegnato. Qualcuno ci leggera` forse una metafora sulla vita umana, dall'infanzia alla morte.
Pochi hanno saputo miscelare chitarra elettrica e tastiere elettroniche con tanta armonia. Da un punto di vista strettamente tecnico, questo e` il loro disco migliore, e uno dei migliori di tutto il rock progressivo. Certamente il primo che si spinga cosi` lontano dagli stereotipi di King Crimson, Yes, Rush, etc.

Fondendo minimalismo, psichedelia, progressive e industriale, i Djam Karet hanno coniato uno dei linguaggi piu` originali del rock moderno, e ridefinito il quartetto rock come un formato di sperimentazione intensa. Sono probabilmente il massimo complesso di rock progressivo dagli anni Ottanta in qua.

Il Live At Orion (Cuneiform, 1999) giunge all'apice della forma. Il gruppo scodella un'ora e un quarto di assoli heavy-metal e improvvisazioni progressive senza che il tempo sembri passare. Ellett e Henderson sono diventati un singolare incrocio fra Joe Satriani e Neal Schon, capaci di miscelare con naturalezza i glissando piu` spericolati con le melodie piu` romantiche. Chuck Oken non ha nulla da invidiare a macchine del ritmo come Neil Peart, con il suo stile fluido e verboso. Il live ha anche il pregio di ripresentare brani della cassetta The Ritual Continues in fulminante versione digitale : Technology And Industry (aperto da uno splendido duetto jazzato fra il basso borbogliante di Henry Osborne e le chitarre scandite in maniera minimalista), Shaman's Descent (un tema solare di chitarra in un'atmosfera di mistero) e Familiar Winds (un capolavoro di subdoli disturbi chitarristici e di assoli arroventati su una cadenza psichedelica).
Fra le altre selezioni basta citare Reflections From The Firepool, tratto dall'album eponimo, meta` piccola fanfara minimalista e meta` bolero orientaleggiante, Run Cerberus Run, tratto dallo stesso album, una fuga barocca alla Yes o EL&P, Province 19: The Visage of War, tratto da Burning The Hard City, e la cervellotica Forbidden By Rule, da Devouring, che starebbe a meta` strada fra Phish e King Crimson.
The band is at its creative peak in these extended live improvisations on pieces taken from their previous albums. The eight tracks, for a total of 74 minutes, are difficult but entertaining: Forbidden By Rule, from Devouring, could advertise the band as a cross between Phish and King crimson; Province 19: The Visage of War, from Burning The Hard City, brings to mind a truly schizoid version of 21st Schizoid Man; and so forth.
A plus is that the CD presents vastly improved versions of several tracks of the rare The Ritual Continues cassette: Technology And Industry (boasting a master duet between Henry Osborne's bass and minimalist guitars) Shaman's Descent and Familiar Winds (reminiscent of the kaleidoscopic suites of psychedelic rock). Not surprisingly, Reflections From The Firepool and Run Cerberus Run steal the show, the first one with its slow and hypnotic pace, the second with its breathtaking fugue a` la ELP&P or Yes: they both are from Reflections From The Firepool, Djam Karet's masterpiece and one of progressive-rock's all-time milestones.
(Translation by/ Tradotto da Walter Consonni)

L'edizione limitata Still No Commercial Potential (HC, 2000) è il distillato di una jam-section di sette ore eseguita da un quartetto che già si colloca tra i più grandi ensembles di musica improvvisata (rock o jazz) di sempre. I quattro, appena si sono messi insieme, hanno cominciato a suonare, senza alcun motivo, chiave e addirittura ritmo preordinati. A dispetto di queste premesse, il risultato è coesivo ed organico come potrebbe esserlo una composizione classica. Non sorprende che, data la sua natura improvvisata, questa musica richiami alla mente anche la musica classica indiana ed assuma caratteristiche mistiche e trascendentali. In realtà, questa musica li renderà seguaci della freschezza dei Phish. Un tintinnio minimalista determina il ritmo per un lamento di chitarra dilatato alla maniera di un mantra in No Vacancy At The Hotel Of Noise. In Twilight In Lonely Lands l'organo di Ellett crea un'atmosfera da chiesa per mezzo di accordi solenni e rallentati, mentre percussioni simili alle tablas colmano lo scarno paesaggio sonoro. Room 24 Around Noon continua l'avanzamento nell'intensità religiosa del raga, introducendo tuttavia un forte aroma di jazz (si immagini un duetto tra John McLaughlin e Chick Corea).
Il paesaggio e l'orchestrazione cambiano drammaticamente con The Black Line, un brano completamente etnico per suoni naturali, didjeridoo, elettroniche che simulano i flauti, percussioni africane e feedback chitarristico. Il tour de force di Strange Wine From A Twisted Fruit (della durata di quasi mezz'ora), mentre diluisce ed adultera la tecnica aggraziata messa in evidenza nei primi tre brani, fornisce una visione documentaristica riguardo la loro arte del creare musica. È superfluo sottolineare come questo sia il loro album meno "psichedelico".
Il momento determinante della carriera dei Djam Karet è Devouring mentre Still No Commercial Potential può essere visto come l'apogeo del manifesto di quell'album: musica improvvisata che suona austera e sofisticata quanto le composizioni scritte. I Djam Karet fanno parte tanto della musica classica quanto di quella rock.

The limited-edition Still No Commercial Potential (HC, 2000) is a distillation of seven hours of jamming by a quartet that already ranks among the greatest ensembles of improvised (rock or jazz) music ever. The foursome got together and just started playing, without any predetermined tune or key or even rhythm. Despite the premises, the result is as cohesive and organic as a classical composition could be. Not surprisingly, given its improvisational nature, the music also recalls Indian classical music and takes on a mystical and transcendental quality. In fact, it will make fans of Phish blush. A minimalist tinkling sets the pace for a dilated, mantra-like guitar wail in No Vacancy At The Hotel Of Noise. In Twilight In Lonely Lands Ellett's organ builds a church atmosphere with solemn and slo-motion chords, while tablas-like percussions fill the scant soundscape. Room 24 Around Noon continues the progression into the religious intensity of the raga, while also injecting a stronger jazz flavor (imagine a duet between John McLaughlin and Chick Corea).
The landscape and the orchestration shift dramatically with The Black Line, a pan-ethnic piece for natural sounds, didjeridoo, flute-like electronics, African percussion and guitar feedback. The tour de force of Strange Wine From A Twisted Fruit (almost half an hour long) and, while it dilutes and adulterates the technique of graceful unfolding set forth in the first three tracks, it provides a documentary view on their art of music making. Needless to say, this is their least "psychedelic" album.
The defining moment of Djam Karet's career was Devouring and Still No Commercial Potential can be seen as the culmination of that album's manifesto: improvised music that is as austere and sophisticated as written compositions. Djam Karet belong to classical music as much as to rock music.
(Translation by/ Tradotto da Maria Dolores Perriello)

Maskit Chamber e` un progetto laterale multistrumentale di Gayle Ellett. Heaven Machine (TMC, 2001) e`, per lo piu`, un tributo personale alle tastiere analogiche. Ellet le prova in tutte le combinazioni e in tutti gli stili, da Italian Horror Movie Soundtrack al solenne tema Vangelisiano di Mosaic 2000, dalla world-music di Free Tibet al funky alla ZZ Top di 6% Solution. I bozzetti melodici sono arrangiati con evidente piacere, ma, eccetto che per il retrofuturista 6% Solution, non riescono a definire una vera e propria personalita` musicale. 4th Wave (TMC, 2001) e` una composizione di 50minuti. Si apre con un sound da suspense nel deserto alla maniera di Steve Roach, subito attraversato da Ellett con un tema mediterraneo, una melodia chitarristica alla maniera di Mike Oldfield. Dopo circa otto minuti ecco che si presenta un nuovo scenario, un oscuro, rimbombante panorama di suoni dal quale si leva la celestiale melodia del sintetizzatore. Dopo una lunga e statica sezione di ronzii carezzevoli, una brezza elettronica introduce un delicato arpeggio di chitarra. Lentamente il panorama fiorisce di cori angelici, melodie zen, fastosi archi. L’ascoltatore č trasportato nella giungla, poi fuori dallo spazio, e poi ancora dentro il tempo. Il suono scompare e la corsa giunge al suo capolinea in una terra desolata. Una spruzzatina di Ennio Morricone su musica New Age, ed ecco che Ellett ha composto l'equivalente musicale di un racconto delle fate.

Maskit Chamber is multi-instrumentalist Gayle Ellett's side project. Heaven Machine (TMC, 2001) is, mostly, a personal tribute to analog keyboards. Ellett tries them in all combinations and styles, from the Italian Horror Movie Soundtrack to the solemn Vangelis-ian theme of Mosaic 2000, from the world-music of Free Tibet to the funky ZZ Top-ish 6% Solution. The melodic vignettes are arranged with gusto, but, except for the retro-futurist 6% Solution, they fail to establish a musical persona.

The 4th Wave (TMC, 2001) is a 50-minute composition. It opens with a desert-suspense sound a` la Steve Roach that Ellett soon crosses with a guitar-based melodic, mediterranean theme a` la Mike Oldfield. After about eight minutes, a new scenario is presented, a dark, rumbling soundscape from which a celestial synth melody soars. After a long, static section of soothing drones, an electronic breeze introduces a delicate guitar strum. Slowly, the landscape blooms, filled with angelic choirs, zen melodies, majestic strings. The listener is transported into the jungle and then out of space, or back in time. Sound disappears and the journey has reached a desolate land. A bit of Ennio Morricone sprinkled over new age music allows Ellett to compose the musical equivalent of a fairy tale.

(Translation by/ Tradotto da Walter Consonni)

New Dark Age (Cuneiform, 2001) dei Djam Karet porta per la prima volta alla ribalta le tastiere elettroniche. Inaugura inoltre un suono più asciutto, semplice e delicato. Nell'insieme, l'album si presente come un lavoro alquanto minore, un divertissment da parte di un autore in vacanza all'estero. È difficile riconoscere la band nelle allegre e quasi bisbigliate No Man's Land e Going Home (una composizione musicale King Crimsoniana di dieci minuti). La jam funk/blues All Clear è un ibrido tra i Blues Traveler ed una surf band.
In veramente pochi casi i Djam Karet raggiungono lo standard dei loro capolavori del passato. Persino l'angosciosa Web of Medea è contaminata da sfumature lounge-jazz convenzionali. Il processo creativo della band si scatena solo nei brevi interludi elettronici (Eclipse Of Faith, Demon Train, Kali's Indifference, Eulogy) ed in due prolisse composizioni che hanno poco o niente in comune con la loro esuberanza del passato, entrambe ipnotiche, esotiche, atmosferiche ed estasiate: Raising Orpheus e Alone With The River Man. Non vi sono dubbi che in questo album ogni nota sia raffinata ed al posto giusto, ma il risultato non è altro che muzak da sottofondo.

Djam Karet's New Dark Age (Cuneiform, 2001) marks the promotion of electronic keyboards to the forefront. It also inaugurates a leaner, simpler, gentler sound. Overall, it sounds like a very minor work, a divertissment by an auteur on holiday abroad. It is hard to recognize the band in the upbeat and almost hummable No Man's Land and Going Home (a ten minute King Crimson-ian opus). The funk/blues jam All Clear is a hybrid of the Blues Traveler and a surf band.
Djam Karet rarely rises to the standard of their past masterpieces. Even the angst-ridden Web of Medea is marred by conventional lounge-jazz nuances. The band's creative process is given free reins only in the short electronic interludes (Eclipse Of Faith, Demon Train, Kali's Indifference, Eulogy) and in two lengthy compositions that have little or nothing in common with their past exuberance, both hypnotic, exotic, atmospheric, trancey: Raising Orpheus and Alone With The River Man. No doubt every note on this album is elegant and competent, but the effect is that of background muzak.
(Clicka qua per la versione Italiana)

The synthesizer was prominent on A Night for Baku (Cuneiform, 2003), containing Hungry Ghost and The Red Thread, and Recollection Harvest (Cuneiform, 2005), containing The Packing House and The Gypsy & The Hegemon, but was replaced by a roaring Colosseum-style organ on The Heavy Soul Sessions (HC, 2010), a set of old instrumentals recorded live-in-the-studio with no overdubbing.

Oken's and Ellett's side-project Ukab Maerd engaged in electronic and digital ambient music on The Waiting Room (2010). The Cave (23:35) is an intellectual version of slow-paced, relaxing, lounge muzak with Middle-Eastern percussion. Its main asset is the contrast between the warm tones of the analog synthesizers collide with the cold tones of the digital dissonances. The bleak drone of White Light No Heat (11:28) evokes arctic winds but suddenly the music morphs into bouncing synth-pop. Other ominous drones surface in God's Elastic Acre (18:16), but none makes an impact. The cinematic and impressionistic Sati & The Trainman (11:14) resurrects memories of vintage Tonto's Expanding Head Band. All in all, the project sounds still a bit amateurish.

Meanwhile, guitarist Mike Henderson debuted solo with White Arrow Project (HC Productions, 2010), a collection of atmospheric songs that focus on a surprisingly conventional style: synth-augmented country-pop.

Ellett's acoustic duo Fernwood released albums of impressionistic and cinematic vignettes: Fernwood (2007), Almeria (2008), Sangita (2009) and Arcadia (2015), that contains the gentle multi-ethnic instrumental lullaby Bells Spring.

Henderson and Oken released Dream Theory In The IE (Firepool, 2011), a collection of lengthy atmospheric instrumental pieces: the hypnotic, repetitive Alive Enough?, the melodic, exotic Forgotten Spirits, the dissonant electronic collage of Dream Theory in the IE, the magniloquent and ecstatic When All The Birds Die Away, regurgitating ghost voices of the jungle, and especially the feverish, tribal suspense of Zombie Attack. The 25-minute John Henry Changes The Rules is the most "narrative" piece, opening with a lighter and more chromatic form of minimalism and then letting the guitar intone a celestial hymn.

Djam Karet's keyboardist Gayle Ellett and guitarist Mike Murray formed Hillmen with Peter Hillman (drums) and Ralph Rivers (bass). The Whiskey Mountain Sessions (Firepool, 2011) contains four lengthy jams that explore downtempo jazz-rock with psychedelic overtones in Lights On The Bay (highlighted by a captivating solo of space guitar) and exuberant propulsive Latin-tinged dance-rock in Summer Days. Both the psychedelic and the Latin accents permeate the 16-minute The Fire Burns, reminiscent of countless instrumental fusion styles of the 1970s to the point of sounding like an elegant and erudite synthesis or tribute of sorts to the post-Miles Davis age.

Djam Karet's The Trip (2013) contains one massive composition, The Trip. It begins with retro-futuristic synthesizers and cosmic droning electronica, then it wanders through free-floating guitar-driven mindscapes. When this relatively austere section implodes, it is swept away by a cold wind and replaced with a folkish melodic theme a` la Leo Kottke. That mood decays into a trance dotted with electronic invocations and then into a gothic sequence of eerie human and machine sounds. Finally a choir emerges to signal the return to earthly consciousness and a classic power-trio jam takes over and leads to the closing reprise of the folkish leitmotiv. In the era of glitch music, dubstep, etc this suite inevitably sounds nostalgic, bringing back memories of Mike Oldfield and Klaus Schulze.

Regenerator 3017 (2014) is almost the mirror opposite of The Trip, a much more lightweight collection of relaxed pieces. There is no denying the magisterial elegance of the combo, notably the smooth solos in Living in the Future Past, the melodic grace of Desert Varnish, but the mood is often a bit too somnolent (Wind Pillow). The poppy lullaby Lost Dreams and the romantic fantasia On the Edge of the Moon are hardly what one expect from a progressive group, no matter how well executed; but then maybe that was the whole point.

Sonic Celluloid (2017), heavy on synthesizers and more focused on melodies than on arrangements, certainly doesn't have the power and inspiration of their best works. Saul Says So builds up sinister suspense with an expert blend of jazz-rock, minimalism and new-age, culminating with an atmospheric Mediterranean guitar; No Narration Needed agonizes with dreamy trumpet, synth invocation and angelic choir before settling for the folkish motif of the acoustic guitar. This is their most "gentle" album, well represented by the flute melody of the closing The Denouement Device.

Exotic instrument such as dilruba, mbira and udu A Sky Full Of Stars For A Roof (HC Productions, 2019) hijack the crunchy jazz-rock jam Beyond The Frontier and the breezy dance of Long Ride To Eden The eleven-minute soundscape A Sky Full Of Stars For A Roof is perhaps too focused on the timbral aspects and the atmosphere. The gentle guitar melodies of Dust In The Sun and Specter Of Twilight further shift the center of mass towards a relaxed new-age style.

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