Litfiba were part of an Italian version of the new wave that emphasized
melody and atmosphere. Desaparecido (1985) sounded outdated for the
time, but 17 Re (1986) was at least a skilled parade of well-crafted
power-ballads.
3 (1988) was repetitive and hardly innovative.
They reinvented themselves as the leaders of "Latin grunge" with
El Diablo (1990), a hodgepodge of alt-pop cliches.
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(Scheda di Tommaso Franci)
A Londra il punk sta raccogliendo i suoi cocci e lo fa con i
filosofeggiamenti settari del dark, dell’elettronica, della new wave (in
America non si vorrà solo raccogliere o sopravvivere: ci sarà la
speculazione/rivoluzione dell’hardcore, infine dell’hevy metal); di ritorno dal
soggiorno di tendenza a Londra, un ventisettenne chitarrista ledzeppeliniano
pettinato alla moda punk (come poi dirà: "nel 1979 ero l’unico punk di
Firenze"), nato ad Avellino, Federico Renzulli, inizia, a Firenze, la vita
stracciona da rocker d’altri tempi e senza nemmeno lo sconforto/speranza che
poteva la, allora sola, capitale (assieme a New York) del rock mondiale.
"A Firenze c’era la morte" ripeterà Renzulli nelle interviste
(riferendosi all’assenza di stimoli musicali, di locali, di luoghi di ritrovo,
di new wavers). Ma grazie a questa morte e all’asfissia che provocava, ad un
nichilismo impotente e fine a se stesso, in quello stesso anno si era formato,
sempre a Firenze, un gruppo dall’altissimo grado di poeticità, privo (come poi
i Litfiba) di proprie sonorità (usavano quelle dei Joy Division) ma dai testi
(in italiano quando imperava la moda, mai doma del resto, essendo questo un
fenomeno eminente di quella lingua e cultura, di cantare in inglese) potenti di
immagini, eleganti, evocativi e (cosa rara per la musica leggera) meritevoli di
esser eletti. Il gruppo era quello dei Diaframma; ne faceva capo Federico
Fiumani. In questa situazione girò per Firenze la voce che un certo Federico
stava cercando un bassista: veniva dalla provincia di Grosseto un ragazzo
classe 1960, Gianni Maroccolo: pensava che, rispondendo all’annuncio si
trovasse di fronte Federico Fiumani, che qualche popolarità, nell’ambiente
universitario/giovanile di Firenze, l’aveva: invece ebbe a che fare con uno
sconosciuto Federico Renzulli. "Località ITalia FIrenze via dei
BArdi" nascevano i Litfiba: Federico Renzulli alla chitarra, Gianni
Maroccolo al basso, Antonio Aiazzi (Firenze, 1958) alle Tastiere, Francesco
Calamai alla batteria. Primo pezzo strumentale: A Satana; strumentale
perché mancava un cantante; ci pensò Aiazzi che prelevò dal liceo un fiorentino
classe ’62: Pietro Pelù. Si presentò nella cantina (che avevano in affitto da
un conte e dove Renzulli viveva) di via de’ Bardi e iniziò (come dirà con
erronea superiorità quando ormai avrà perso tutto quell’afflato) ad
"urlare in un microfono". Firenze contemporaneamente stava iniziando
a pullulare di locali alternativi (= new wave e/o post-punk): il Manila, il
Faro, il Casablanca, la Rockoteca Brighton. I concerti dei Litfiba (che spesso
condividevano il palco con i Diaframma, che già avevano fatto demos ed eps, ed
altri gruppi, poi scomparsi, come i Neon) si caratterizzavano (ne è
esemplare la "Mephisto Festa" durante il carnevale dell’82) per un
inizio da party horror con il basso cupo ed ossessivo di Maroccolo, una bara a
centro palco da dove usciva Pelù declamando i primi versi di A Satana:
"Sangue scuro che avanza / dalla parte scura il fronte dei / cadaveri
divora ogni cosa", il rituale sacrificio di un oggetto qualsiasi
distrutto da Pelù che infine si gettava dal palco sulla folla (cose scontate,
altrove: in Italia no, in Italia potevano ancora entusiasmare). Nel luglio
dell’82 i Litfiba vincono la seconda edizione dell’Italian Festival Rock di
Bologna. Esce l’ep Litfiba (Maso/ Urgent Label): Guerra, Luna,
Under the Moon, Man in Suicide, E.F.S. Tutti i brani sono di
alto livello (non musicale, chiaramente: poetico), tutti evocativi, pregni di
significato, alcuni cantati in inglese, altri in italiano. Questo per quanto
riguarda i contenuti; ed è la sola cosa che è possibile chiedere ed aspettarci
dai Litfiba, perché la forma, be’, la forma non è altro che quella del momento,
del gusto medio dell’adolescente inizio-anni-Ottanta: dark/post-punk. Ma è un
pretesto, poteva essere heavy metal, rap, soul: quello che conta è che i
Litfiba avevano da dire delle cose e non c’era miglior modo per farlo che
parlare nel linguaggio dei contemporanei (il pentametro è quello di David
Bowie, Killing Joke, Tuxedomoon, Martha & The Muffins, Ruts, Stranglers,
Christian Death, X). Le cose da dire erano il manto della morte, il sentimento
di tragicità, l’avvertimento di una bellezza tanto latente quanto assoluta, la
voglia di un massimo, qualsiasi cosa esso sia (il sesso, le sedute spiritiche,
le uscite notturne nei cimiteri di campagna o la droga), il terrore della
mediocrità. La copertina, in bianco e nero: una specie di monaca-larva che si
accascia: per lei è insopportabile ogni luce, se pur tenue. Intanto alla
batteria si avvicenda Renzo Franchi; esce il 45 giri Luna/La preda
(Fonit Cetra, 1983). Sempre nell’83 i Litfiba apparvero con Transea (prima
immagine di quella che sarà una fissazione di Pelù: gli zingari dell’est) nella
compilation Body Section (Electirc Eye) e realizzarono la colonna sonora
di Eneide (Suono Records, 1983), uno spettacolo teatrale di Kripton. Il
gruppo vaga per i bassifondi delle città europee (soprattutto la Francia): è,
fondamentalmente, sola ispirazione per la loro poetica ed esistenza, prima
ancora che un’esigenza artistico-musicale. Il 1984 (anno in cui esce Siberia
dei Diaframma) è l’anno della svolta. Alberto Pirelli e Anne Marie
Parrocell creano, a Firenze, l’IRA, o "Immortal Rock Alliance" (nella
quale esce appunto l’album dei Diaframma), che in breve tempo diviene
l’etichetta indipendente italiana più nota. Alla batteria del gruppo è ora il
migliore amico di Pelù, nonché suo ex-compagno di Liceo: Luca de Benedictis
detto Ringo de Palma (Torino, 1963): i due iniziano a far uso di droghe
pesanti. Esce l’ep Yassassin (Contempo, 1984): Yassassin, Electrica
danza, Yassassin (radio version). Evidente, anche dalle
covers, l’influsso di Bowie. Electrica danza (di cui esce pure un video
ambientato fra le luci e le ombre notturne in un decadente e autunnale palazzo
parigino) è una canzone d’amore bohemienne, tinta della stessa tinta dei Black
Sabbath del primo album (Black Sabbath, 1970): la voce di Pelù è quella
di un fantasma che sta per accoltellare o essere accoltellato da un’entità
femminile: fantasma/accoltellato: spirito-fumoso/sangue. Nella prima antologia
dell’ IRA, Catalogne Issue (1984) escono altri due classici dei Litfiba:
Onda araba e Versante est. Il linguaggio della new wave viene
usato per rendere e far rivivere (con occhi toscani) atmosfere orientali: da
avamposti gheddafiani nel deserto che gambe mentali possono però subito far
svanire per consentire il rifarsi della pace silenziosa dei colli e casali
fiorentini.
La trilogia del potere (1985 - 89).
È la volta della grande assurdità. 1985. Esce il primo album
dei Litfiba. Desaparecido (IRA). Assurdità innanzitutto perché è la cosa
più storica fatta nel modo più a-storico. L’a-storia: musicalmente,
quell’album, nell’85, non solo era datato (lo sarebbe stato, all’interno del
movimento new wave, già nel ’79), ma era addirittura inesistente, nullo:
musicalmente nullo. Ed oggi: oggi, uno sberleffo. Tragicommedia. Roba da
preistorici nonni magari reduci dal fronte e un po’ rimbambiti: tipo i
mutandoni per andare a letto o i bigodini della vecchia zia. A causa delle
evoluzioni dei costumi e quindi dei suoni, non c’è cosa più lontana al
rock-medio anni ’90 del rock-medio anni ’80. Fate ascoltare al primo ragazzetto
che passa per strada qualcosa di rock-medio (non punk, non elettronica: diciamo
pure, in senso lato e stereofonico, pop) anni ’80: gli verranno delle forze di
stomaco. Si struggerà, invece, e per tutt’altri motivi (il richiudersi
rispettoso e retorico nel sentimento del "bello!" per esempio), per
una ballatina anni ’60. Eppure, e proprio per questo, non vi è cosa più calata
nella storia di quest’album. Esso nasce e si conclude in quel 1985: non ebbe da
dire nulla ai contemporanei, perché usava un linguaggio già trovato e già
datato e quindi non contemporaneo (il linguaggio dell’ABC musicale che sempre
useranno i Litfiba e che non fa essere loro dei musicisti); non potrà dire
nulla ai posteri per le stesse ragioni e casomai amplificate. Per questo riesce
a dire tutto quello che voleva dire: e non era il niente: era il racconto di un
sogno adolescenziale ambientato in una Firenze tra suggestioni di casolari di
campagna e spiriti templari da paesi misteriosi. C’è solo un motivo per
ascoltare un album dei Litfiba. Un tal motivo non si trova in nessun altro. È
l’aver voglia di fantasticare e suggestionarsi su come passare o aver potuto
passare un determinato preciso conchiuso e irripetibile tempo: è la volta
dell’85. E in questa ‘volta’ il primo a guidarci è un inno, un inno che in
altra forma (com’è quella che assume dal vivo in , per esempio, Sogno
ribelle, 1991) avrebbe potuto essere un anthem alla Overkill, Anarchy
in the U.K., Smells like teen spirit, si tratta di Eroe (o Eroi)
nel vento. La voce di Pelù, pur evocativa ed unica come (quasi) sempre, in
questa edizione del brano è ancora contenuta, frenata, costipata, sottotono. Ma
basta il testo, uno dei pochi, nella storia del rock, a meritare una lettura:
"Scatti ai nervi e i sensi che/ Le ombre dei sogni scuotono/ Spazza
vento e porta via/ Il bambino che gioca con il mare/ Non sarò eroe / Non sarei
stato mai/ Tradire e fuggire/ è il ricordo che resterà/ Eroi nel vento / è la
noia che scava dentro me/ Solo noia che scava dentro me/ Guerre di eroi/
Tradite senza pietà/ e svanite nei secoli". La seconda serata del
periodo di giri notturni per cimiteri è rappresentata da La preda:
bruma, brina, corsa, affanno, morte di ghiaccio mentre il cuore, estrema beffa,
implode per troppo battere, per troppo calore. Lulù e Marlene: un amore
troppo grande, dovrebbero reggerlo, oltre al soggetto, almeno due persone, ma
sarebbe inutile, non ce la farebbero .. eppure sono bellissime .. tanto vale
non lo tocchi nessuna delle due. Instambul: da un colle di Firenze la
prova immaginativa di un Oriente che, per quanto cuocia di delusioni, a forza
di tenace volontà può splendere, come una volta o come forse non ha fatto mai. Tziganata:
Eva ballava sul fuoco/ Profumo di sesso attorno a sé/ La notte in cui
nacque l’odio: può bastare? per voler volere, di passare almeno (notte o
giorno che sia, compagnia o solitudine). Pioggia di luce: peccato,
smacco, stupidaggine. Questa stonatura è data dal fatto di non essere per nulla
evocativa, di non infondere alcun desiderio di avere una storia simile (di non
far desiderare cioè di avere una storia in cui usarla come suo condizionante
sottofondo). E non essendoci, come sempre, alcun pregio musicale quando manca
l’evocazione i Litfiba sono inascoltabili: questa ballata lo dimostra. A farla
dimenticare ci pensa però Guerra: un pezzo violentissimo e sempre in crescendo
che non dà né respiro né tregua, sembra non finire mai. In quest’ultimo pezzo
vi sono evidenti riferimenti agli odiosi Simple Minds, ma non importa … tanto
quella dei Litfiba non è musica. Sempre nel 1985, incidono per l’IRA, con i
Diaframma che ne erano gli autori, Amsterdam perché Il giorno
impazziva di luce come recita la lirica di Fiumani. Non solo perché lo
hanno fatto i due gruppi più importanti, ma anche per le sue qualità
intrinseche (= poeticità, poeticità, poeticità) è il brano più importante degli
anni Ottanta italiani. Nel 1986 esce, per l’IRA, l’ep Transea, sempre
sul "versante est": Transea, Maria Valevska, Onda
araba, C.P.T. Queeg. Tra le varie avventure/vacanze/concerto
in Europa, i Litfiba sbarcano a Mosca. Pelù, lasciando de Palma al suo destino,
smette di drogarsi ed inizia un periodo di dipendenza alcolica. Aumentano le
divergenze artistiche e personali tra i due galli del pollaio: Maroccolo e
Renzulli: il primo è per i Tuxedomoon, le tonalità oscure rese dall’uso
preminente del basso e delle tastiere elettriche sugli altri strumenti; il
secondo per i Led Zeppelin, gli assoli di chitarra. Aiazzi, che non ha
personalità, si schiera ora con l’uno ora con l’altro. Per questa volta ha la
vinta Maroccolo che lavora giorno e notte agli arrangiamenti: esce 17
re (IRA, 1986). Il doppio lp, pur e ancor più anacronisticamente nel filone
new wave, è un album diversissimo dal primo. Esaspera, come violentasse un
cadavere, ciò che è rimasto (= ciò che i Litfiba si ricordano) dei dettami new
wave: si sente già odore degli anni ’90 (in america è uscito il primo ep dei
Pixis e sta per uscire quello dei Mudhoney): i Litfiba fanno un’Odissea cieca e
suicida all’indietro. Rischiano di rimanerne seppelliti. È il più estremo,
difficile, sincero e anarchico (nel senso che ogni componente del gruppo
faceva, suonava e diceva quello che gli pareva) album del gruppo. Sarà il meno
ricordato e venduto (il suo pregio è proprio quello di essere invendibile).
D’altra parte c’è chi non capisce il barocco (la verità che vi è nell’estetica
del brutto). Tutti i brani sono malati allo stesso modo, pervasi da una
medesima ed ineluttabile opacità; provengono dai reconditi, dai recessi (se di
una stagna di gasolio, di una cantina ammuffita o di uno scheletro, non
importa). Qui non si respira da balconi (pur se patibolari) come in Desaparecido.
Le musiche sono scritte da Renzulli, Maroccolo ed Aiazzi. I testi che, pur
senza i picchi di Desaparecido, chiedono comunque ascolto, non si
sa. Piero Pelù se n’è sempre arrogato il diritto, ma, a giudicare dalle sue
prove posteriori sembra difficile che se lo sia meritato; forse li hanno
scritti tutti insieme; forse il solo Renzulli. Resta è un brano deciso e
senza compromessi: per brevità, forza e concisione sarebbe stato inammissibile nell’album
dedicato ai desaperecidos argentini. Re del silenzio, altro "pezzo
forte", giustifica perché il brano d’apertura diceva Resta quella parte
di me più vicina al nulla: perché Non so più amare. Café, Mexcal
e Rosita dilata ogni porto (la morte, il tradimento, il lavoro, la guerra)
in un mare ubriaco, alcolico, insensato e disperato. Antiestetico perché
l’estetica, come il resto, non conta più: non ci sono più occhi per vedere od
orecchie per cos’altro. Solo nenia, sciagurata e bestiale. Senza compiacimento.
Vendette tenta una ricostruzione, almeno utopica, di un qualche approdo
di valore: come dire: se c’è un dio (rigorosamente lettera minuscola)
provvederà. Notevole l’attacco acustico: in 7 anni di carriera non è attestato
l’uso della chitarra acustica. Pierrot e la luna: dopo aver riportato la
ragazza a casa, di sera, quando lo stomaco è vuoto perché è ancora non si è
cenato, anche se è tardi, il ciglio, il ciglio tra la strada a sterro e il
campo, da costeggiare, da rasentare i freddi e bagnati fili d’erba, da
eclissarvi. Alla luna. Tango: brano a ritmo di tango, appunto, ma
violento, teso e fasciante, da girotondo di zingari intorno al fuoco, fuoco di
iniziazione: alla vita o alla morte. Come un dio: diventerà un manifesto
con 12/5/87 prima e Pirata dopo. Febbre: vedi Cafè,
Mexcal e Rosita, solo che qui non siamo da soli nella panca di un
pubbaccio, ma da soli, nella camera buia di una casa che è tutta quella camera.
Come se stessimo lì ad aspettare un ferro da stiro ad asfissiarci di vapore. Apapaia:
una melensa pop-aggine, probabilmente l’unico brano scritto da Pelù. Da non
considerare. Univers: atmosfera fuori dal mondo: pur non essendo il
miglior brano del disco, è quello che meglio chiarisce le differenze con Desaparecido:
siamo passati dal primo racconto per poi vivere, all’ultimo per poi morire,
solo che, quest’ultimo, non è racconto di altro, ma di morte esso stesso e già.
Checche se ne dica, oramai la vita non interessa più, è già stata spremuta.
Rimane, se rimane, se 17 Re rimane, un vizzo (corpo, frutto, panno). Sulla
terra è il miglior brano dell’album: siamo a Gerusalemme: l’ultimo degli
infedeli abbandona la città, per farlo ha bisogno di sacrificare un amico: e
non gli importa: perché non gli importa della fuga: la fa perché gli capita. Ballata
è la mattina dopo la notte della fuga. Solitudine totale. Nulla. Nemmeno la
forza di suicidarsi. L’album si conclude (sempre nel rispetto del tono rosso
cupo e sanguigna che caratterizza l’album come palesa la copertina) con quattro
brani in rapidissima successione e uno più violento dell’altro: Pelù finalmente
urla e ringhia. Gira nel mio cerchio e Cane, riediti in chiave
del tutto garage-rock e per nulla new wave, diventeranno due classici del
gruppo (la facilità del trasportare un brano da un impianto elettronico/new
wave ad uno garage/grunge dimostra, nel caso dei Litfiba, non
l’incorruttibilità di una buona melodia, ma l’inesistenza della medesima: il
vuoto, si può fare entrare dove si vuole: per parlare, che è quello che i
Litfiba vogliono fare, nel senso di comunicare, basta l’aria). Oro nero è
un sabba. Ferito significa morto. Il lunghissimo tour dell’87, che
sperpera i magri guadagni del gruppo toccando anche l’Australia, si conclude
con una serata storica, in un locale che per questa serata diverrà a sua volta
storico. Non succede nulla, il 12-5-’87, nessuno muore: solo campo libero al
sogno ed all’intensità sentimentale. La cornice è la Firenze di un gremito
Tenax. Il live che ne viene fuori (12-5-’87, IRA, 1987) è costituito da
un esiguo numero (10) delle canzoni eseguite quella sera: nella scelta dei
brani da pubblicare si prediligono quelli di 17 Re, del primo album solo
La preda e Tziganata, manca Eroi nel vento, ma, se 17
Re è l’album in studio più meritevole dei Litfiba, questo è il loro miglior
album in assoluto. Migliore però in modo stranissimo; scaturisce infatti da
questo contrasto: i Litfiba in studio fanno new wave, dal vivo garage-rock; gli
album in studio dei Litfiba vendono poco (17 Re, un album costantemente
ripudiato dalla coppia Peù-Renzulli, pochissimo), ma i concerti sono sempre
sold-out, anche all’estero. In 12-5-’87 la batteria di de Palma è come
sempre quella di chi ha per unico scopo vitale suonare e non si applica o non
enfatizza neanche questo: ma non sbaglia un colpo; il basso di Maroccolo giusto
dominatore assoluto; la chitarra di Renzulli garbata, mai invadente o
autocelebrativa, essenziale quanto efficace; Pelù alterna improvvisa ironia
nelle arringhe al pubblico (sarà anche denunciato per aver offeso un ex ministro
del governo italiano) a totale distacco da tutto ciò che non sia le parole che
intensamente canta. Come un dio e Cane fanno vedere come possa
con agilità trasformarsi una canzone dei Litfiba (che in realtà, ripeto, non è
una canzone, ma solo un motivo, da seguire quanto basta e come pretesto, per
dire "altro"). Trascendentali le versioni di La preda e Tziganata.
La dilatazione in duetto col pubblico di Luna, brano risalente all’82,
l’entusiasmante conclusione del concerto e della registrazione. Con Litfiba
3 (IRA 1988) il gruppo, in seno al quale stanno prendendo sempre più campo
Pelù e soprattutto Renzulli, abbandona la new wave. L’album si rifà a Stogees e
Van Halen; se si fosse in America si direbbe un detroit-rock, tuttavia sia per
il fatto che non siamo in quel paese, sia per il riaffacciarsi di vecchi
fantasmi di melodie e motivi adolescenziali (Istanbul in Santiago,
Febbre in Peste) è più opportuno parlare di world-music. Finite le
due ondate della new wave (quella di fine Settanta, inizi Ottanta dei Joy
Division e quella asservita al pop di metà Ottanta degli Smiths), vendendo
molto l’hard-rock (Gun’s’n Roses), spopolando il metal (Metallica), i Litfiba
ripuliscono, semplificano e potenziano il suono, in una direzione non dissimile
a quella che avevano già adottato dal vivo (es. le edizioni in 12-5-’87
di Cane e Resta). I Litfiba (Renzulli e Pelù) sono così poco
legati al senso estetico della musica che in un anno possono benissimo passare
da un genere all’altro, a seconda della moda italiana del momento; quando
questi passaggi sono supportati dalla sostanza dei concetti o dell atmosfere
trattate, merita ascoltare e lasciarsi trasportare da un disco dei Litfiba;
altrimenti il cestino è l’unica soluzione (per salvare le orecchie e non
insozzare l’animo). Litfiba 3, nonostante le mediocri Amigo (garage-rock
fine a se stesso), Louisiana (una pallosità totale) Corri (altro
riempitivo, se pur potente) e Bambino (orrenda ritrattazione dei
temi di Eroi nel vento), è un album che merita: Cuore di vetro
(ripresa da Because I do degli X) è l’unica canzone grunge italiana,
non solo al passo coi tempi (quelli di Touch me I’m sick dei Mudhoney)
ma tutto sommato in anticipo su di essi; Tex, che in altra edizione (per
lo stesso processo di rivestizione dei brani: vedi ancora Cane) diverrà
il primo successo Litfiba, un grande pezzo di word music / hard-rock; Ci sei
solo tu una palestra per il vocione di Pelù ed il pogo che incita; Paname
un gioco da cocktail-louge discretamente raffinato, in franco-italiano. I
Litfiba dichiarano (per soddisfare i retorici e blasfemi proseliti di Pelù) che
3 è l’ultimo atto della "trilogia del potere" (i loro primi 3
album sarebbero sorretti dall’opposizione ai regimi totalitari). Per il gruppo
tuttavia è la fine: Maroccolo se ne va (formerà i c.s.i.), de Palma
muore d’overdose da acido lisergico: rimangono Pelù e Renzulli (vincitore nella
lotta per il potere), con Aiazzi come semplice mercenario. I due avrebbero
potuto smettere o cambiare nome, invece (dato che i diritti li possedeva Renzulli)
perseverano, passano alla C.G.D., assoldano un irrilevante bassista (quello che
ci voleva a Renzulli), Roberto Terzani, un discreto batterista (Daniele
Trambusti) e, per un tocco di eccentricità (e professionalità, dato che dal
vivo gran parte del lavoro sarà il suo), un percussionista di colore, Candelo
Cabezas. Nelle prove di rilettura, in chiave delle nuove mode grunge-hard rock,
dei vecchi pezzi, Renzulli può sfogare (dopo un lungo periodo di assopimento
datogli grazie a dio dal punk e dalla new wave) i suoi rozzi gusti musicali:
Led Zeppelin, Santana, Van Halen. La nuova formazione parte in tour, aprendosi
la strada della popolarità e dei proficui guadagni. Esce un finto live (in
quanto ampiamente ritoccato in studio): Pirata (CGD, 1989). È hard rock
senza compromessi con la new wave o con il pop, solo con le musiche
tradizionali medio-latine: i vecchi funs si sono eclissati, sostituiti da nuovi
teneegers ignari di punk e new wave ma vogliosi di vivere la loro vita
all’insegna di una ribellione non autolesionistica bensì assicurante
divertimento ed emozione. Cangaiceiro è un nuovo e trascinante brano,
manifesto dell’album, per il quale Renzulli ha pensato alla parte musicale,
Pelù ai testi; Il vento una schifezza da pubblicità progresso; la nuova
edizione di Come un Dio, viene ribattezzata in Dio e non ha a che
fare in nulla con la precedente, ma è grandiosa, come Tex (l’hit
dell’album e il primo dei Litfiba) la canzone giusta per apprezzare la gioventù
con le sue speranze e piccoli/grandi tremori. Anche le cover di Rawhide e
Cannong song colpiscono per intensità, come (e soprattutto) l’inno Tequila.
Gira nel mio cerco diventa quasi death-metal; Lulù e Marlene si
semplifica, guadagnando in immediatezza ma perdendone in fascino. Pioggia di
luce e (ancora!) Louisiana, due escrementi.
La tetralogia degli elementi (1990 – 99).
Forse inaspettatamente i Litfiba continuano e accentuano la
fase hard rock della loro vicenda. Tirano fuori un capolavoro El diablo,
inno generazionale al pari di Eroi nel vento: non più raffinatezza, non
più intimismo; solo forza e potenza. L’urlo/rutto che apre il pezzo/manifesto è
da annali, il testo significante e semplice quanto basta per farne un credo. È
il brano d’apertura dell’omonimo album (El Diablo, CGD, 1990) che
prosegue con una sorta di trip-hop latino a tempo di grancassa Stooges: è un
altro, se pur minore, manifesto: Proibito. Per il resto (e in questo
resto c’è tutto il peso dell’assenza di Maroccolo che i due scismatici fingono
di non avvertire) l’album, che venderà un buon mezzo milione di copie, è da
buttare. Sogno ribelle (CGD, 1992) è sulla falsa riga di Pirata:
un insieme di live, brani inediti, rimaneggiamenti di vecchi pezzi. Tuttavia, a
parte le solite Bambino ed Apapaia, è una raccolta che riesce a
non annoiare, che si distingue per una versione ledzeppeliniana ma pur
imperdibile di Eroi nel vento, che già dal titolo si propone di
soddisfare le attese e le voglie catartico/sognatrici dei nuovi teenegers ma
anche del venticinquenne paesano e lavoratore medio che se ne servirà come
sottofondo e stimolo per i suoi sabati di libertà sognare i e nei quali è tutto
ciò che gli rimane. Terremoto (CGD, 1993) viene annunciato dal gruppo
come un album di latin/metal: è il miglior album in studio della coppia
Renzulli/Pelù: sull’onda del grunge, i due non vogliono rimanere addietro: che
il loro rimanere al passo coi tempi significhi arrivare anni luce dopo tutti
gli altri, non fa altro che confermare lo stesso fatto: i Litfiba (quando
riescono nella loro missione) sono sciamani ed evocatori di atteggiamenti,
caratteri, stati d’animo, visioni che poi ogni ascoltatore non dovrà tanto
adattare alla propria realtà, bensì usare per tentare di ricostruire quella
storia (le vite di Pelù e Renzulli) che dai suoi protagonisti non ci viene mai
narrata (e con questa ricostruzione tentare di impreziosire la propria, di
storie). La musica come espressione artistica non fa parte di questa
dimensione: come sottofondo (magari scritto da altri: quelli che fanno della
musica un’arte), come un terreno necessario su cui poggiarsi, sì. Per questo i
Litfiba compongono albums. E per questo è, più che difficile, inutile dirne le
referenze o cercarne le influenze: per le sonorità dei Litfiba gli altri
potrebbero anche non esistere: se nessun altro gruppo avesse suonato, ma ci
fosse stato soltanto un tale limitatosi a scrivere su un pentagramma 7 note new
wave, 7 note hard rock, 7 note grunge, per i Litfiba sarebbe stato lo stesso. I
loro album sarebbero stati gli stessi in tutto e per tutto. Sono così fuori
dall’arte, i Litfiba, da rendere impossibile dialogo, confronto, o rapporto con
un artista qualsiasi. Fine a se stesso: ecco un termine con cui è improprio
definire un qualsiasi atto della saga Litfiba. Venendo a Terremoto ci
aspetta ancora lo scarto studio/live: e questo discorso vale per ogni pezzo.
Pezzi tuttavia particolarmente invitanti e promettenti per questo, solito,
scatto in potenza, vivido, estremistico. Unico neo Soldi, la Louisiana
della situazione. Il resto un condensato di trasfigurazione tra sole,
asfalto, campagne arroventate e notti ristoratrici di frescure. È l’ora estiva
del meriggio, del dopo pranzo: un’amaca, una tequila, della campagna con cui
fondersi. Il triplo live Colpo di coda (EMI 1994) rende una realtà tutto
questo. È il miglior album dei Litfiba dal 1987. Lo sintetizza l’inedito
d’apertura A denti stretti: qui c’è tutto il miglior Pelù: personalità,
assenza di noiosi temi sociali, candore (=, per lui, diamante grzzo). L’album,
non a caso, contiene tutto Terremoto: era necessario far esplodere
quell’implosione: Sotto il vulcano, Dinosauro, Il mistero di
Giulia, Fata Morgana (notevolissima), Maudit
(un’epopea): graniticità, primitività, sessualità, trascolorire, distruzione
rappacificante. Dimmi il nome è l’urlo infinito di Pelù
"terremoto", il brano oltre il quale non è possibile chiedere ad un
live. Prima guardia è una perfetta tinteggiatura di atmosfere prealbari
e gheddafiane (moderne crociate, soldati nel deserto, cattedrali, casa infine
come indispensabilità per mantenere la tranquillità ed il piacere di sognare)
proprie dei primi due album. Imperdibili le versioni di El Diablo, Gira
nel mio cerchio, Tex, Cangaceiro. Renzulli non è un chitarrista
estremamente dotato, ma si sposa a perfezione con la voce di Pelù, non sbaglia
una nota, ha una resa di suono inconfondibile (che del resto appariva già nel
periodo new wave quando era, giustamente per l’economia dei brani, imbrigliato
dal basso di Maroccolo), rifugge noiosi assoli, è essenziale: riesce a non far
sentire abbandonati, ad esprime bontà amichevole (e non retorica). Candelo fa
un gran lavoro alle pelli. Aiazzi (sempre meno agli effetti elettronici degli
esordi e sempre più alle semplici tastiere) è una presenza comunque confortante
e di fondamentale completezza. Spirito (EMI, 1994), il primo album non
prodotto da Alberto Pirelli ma che si compiace di vantare Rick Parashar (già Ten
dei Pearl Jam), pur cambiando genere (meno metal quasi del tutto word /
latin music, ma senza pop), tono e atmosfere, non abbassa lo spessore (=
credibile stimolazione a vivere) di Terremoto: Lacio Drom (dedicato
ai rom) e Lo spettacolo sono fra i migliori inni riusciti a Pelù, Animale
di zona il miglior pezzo dell’album, forte di un testo dignitoso e di uno
schema alla Stairway to heaven ma depurato, grazie alla chitarra
"amichevole" (= non autocelebrativa = non fine a se stessa / sterile)
di Renzulli ed all’impostato timbro di Pelù, dalle acute antipatie ed odiosità
proprie e croniche ai Led Zeppelin. Diavolo illuso è un non-noioso
grunge. Tammuria mandolini evocanti sole e pesi chitarrismi compagni di
giusti e opportuni latrati. Suona fratello (che riprende Solitude dei
Black Sabbath) un esperimento/ballata perfettamente riuscito registrato sul
divano di casa Renzulli e fatto di chitarra, voce, tequila. Per la prima volta
dalla nuova formazione a due (diamo, se vogliamo, un po’ di merito anche al
Parashar) dopo l’ascolto dei brani non si ha la necessità di riascoltarli dal
vivo riveduti e corretti (amplificati) per meglio apprezzarli, sono già pronti
così. Urlo (CGD, 1993), Re del Silenzio (CGD, 1994) sono
pregevoli antologie volute, come buona uscita dal contratto, dalla vecchia casa
discografica. Lacio Drom (EMI, 1995) la prima antologia (con
videocassetta, da vedere) della nuova casa discografica che si rifà a Sogno
ribelle e piace per una toccante versione di un prezioso fossile dell’84, Onda
araba. Qui finisce ciò che è opportuno dire dei Litfiba.
Con Mondi Sommersi (1997) il gruppo (ad eccezione di
una stupefacente, come il balzo di un paralitico, Sparami) è approdato
ad un indegno dance-pop (ribadito dallo scandaloso live Croce e delizia,
EMI, 1998), ha dichiarato, al solito, che questo album rappresentava il quarto
degli album rappresentati i quattro elementi primordiali (El diablo il
fuoco, Terremoto la terra, Spirito l’aria);
Con Infinito, poi, Pelù e
Renzulli completano la loro discesa nel conformismo radiofonico che si direbbe
il peggiore se, ciascuno per conto proprio, i due non facessero successivamente
anche molto di peggio.
Renzulli continuerà col marchio Litfiba e con un ex-fan di Pelù, Cabo Cavallo,
a languire in due album: Elettromacumba (EMI, 2000) e Insidia
(EMI 2001). Pelù farà marcire la sua retorica in Né buoni né
cattivi (EMI 2001) e USD L'uomo della strada (EMI
2002).
Il terzo album di Pelù (Soggetti smarriti, 2004) serve
essenzialmente per rispolverare l'adagio popolare per cui non c'è mai fine al
peggio: liriche demenziali senza volerlo essere (anzi, atteggiandosi a
impegnate e romantiche), musica rozzissima e insulsa, filantropismo a buon
mercato. Ma al soggetto smarrito Pelù non basta: vuole infangare anche il
passato in una versione di "Re del silenzio" assolutamente
improbabile e scadente.
Nel 2005 Renzulli/Cavallo pubblicano fra l’indifferenza generale, che è come
rimarchi la tristezza della cosa, Essere o sembrare.
Pelù nel 2006 pubblica In faccia, l’album
musicalmente più rock (ma anche più derivativo perché vi si plagia ora questo
ora quello) della sua carriera da solista; ciò grazie al lavorio di chitarre e
sezione ritmica (la voce continua nel melenso). Si tratta comunque di un
qualcosa che la terribile copertina esemplifica a dovere.
Nel 2010 Pelù e Renzulli si riuniscono e incidono un
inutile, goffo e fiacco live con tamarrissimi inediti, Stato libero di Litfiba (Sony, 2010).
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