Fu quella la direttrice di Up In It (SubPop, 1990). Se a
tratti gli Afghan Whigs suonano ancora come un incrocio di Replacements e
Dinosaur Jr precipitato in una soluzione di acido solforico (Hated, forse
il capolavoro), se indugiano senza pieta` nei loro infernali rock and roll
(Southpaw), il nuovo modus vivendi e` all'insegna di un rumore piu`
controllato. Cio` non toglie che, come dimostrano Retarded e
I Know Your Little Secret, le loro
ballate siano ancora le piu` elettriche e disperate.
Titolari di un bestiale "voodoo-grunge" (Amphetamines And Coffee), gli Afghan
Whigs riescono ad esprimersi con altrettanta feroce disinvoltura in
White Trash Party, che e` una sorta di freneticissimo funk, e nel blues
"beefheartiano" di Son Of The South.
Che nel loro sound si annidi ancora una violenza animalesca e` dimostrato anche
dal singolo Sister Brother e dal relativo video (censurato).
Congregation (SubPop, 1992), paga pero` lo scotto della conversione al
soul bianco. L'album, al confronto dei precedenti, e` sterile e banale.
Elegie come
Turn On The Water aggiornano il verbo di
Mascis alla maturita` di
Westerberg, ma con troppo poco nerbo. Le confessioni
autobiografiche di brani come l'accorata Conjure Me e Dedicate It
costituiscono certamente un ritratto inquietante della personalita` contorta di
Dulli, ma hanno poco di originale, situandosi a meta` strada fra diversi
generi di ballata confessionale. I'm Her Slave e Miles Iz Ded,
i brani piu` sperimentali, sono per adesso degli episodi periferici.
Sembra stonare l'EP Uptown Avondale (Subpop, 1993), dedicato a cover
di classici della soul music.
E` quello invece il nuovo corso di Dulli, come dimostra
Gentlemen (Elektra, 1993), semplicemente meglio arrangiato (coristi,
mellotron, violoncello), fino all'apice barocco rappresentato dallo strumentale
Brother Woodrow.
Be Sweet, Debonair (con forte strimpellio funky
di chitarra), e la desolata My Curse
(cantata da Marcy Mays degli Scrawl) hanno in effetti un potere suggestivo
che trascende le classi sociali, il sesso e le eta'; ma
l'attrazione maggiore sembrano essere le fantasie masochiste del giovane dandy
di Cincinnati.
La frenetica Now You Know trabocca di astio ("now I can pimp
what's left of this wreck on you"), e
in Fountain And Fairfax viene a galla il Dulli sardonico e pervertito,
l'imbonitore che nella title-track declama ai quattro venti il suo fatale
destino, quello che delira nel crescendo di What Jail Is Like
fino a strillare con un'intensita` da opera.
E` l'album piu` cupo di Dulli, quasi un'antitesi di tutto cio`
che il rock and roll epitomizza.
La chitarra di Rick McCollum sta diventando il suo alter ego.
La formula si ripete stancamente su Black Love (Elektra, 1996), altra
parata di parabole di fallimento, rimpianto e catarsi, ora urlate con la
forza di un agonizzante (Crime Scene Part One, My Enemy)
ora scandite con la rabbia di un teppista di strada (Honky's Ladder).
Going To Town e Blame Etc impiegano stereotipi funky e soul,
fino a suonare come gli Stones demoniaci di Play With Fire.
Tutte le canzoni sono bruttine uguali. Non
raffazzonate, semplicemente prive di ispirazione e di contenuti.
Il disco si apre sulle ultime note di Gentlemen, a indicare una specie
di continuita`, invece la traiettoria e` completamente diversa.
Il proverbiale equilibrio fra soul e grunge e` crollato, a favore
del secondo. "A lie the truth... which one should I use": forse sarebbe ora
che si decidesse.
Dopo due album tanto sinceri ma anche tetri, in pratica due atti di
autoflagellazione, Dulli viene ricoverato a New
Orleans per sua depressione nervosa. Quando ne esce e gli Afghan Whigs si
riformano, alla batteria e` subentrato Michael Horrigan.
1965 (Columbia, 1998) saluta il rinato Dulli con
una profusione di fiati, tastiere e archi e le liriche piu` libertine della
sua carriera. Libidinosi gli arrangiamenti e libidinose le liriche:
Something Hot, un soul lascivo quasi alla Prince,
Uptown Again, una rumorosa power-ballad,
sono degli scherzi
da liceale confrontati con le aspersioni di Gentleman.
Dulli-Lucifero il perverso corruttore si immerge nelle atmosfere sensuali
e malvage di 66 e nell'incubo freudiano di Omerta, sottolineato
da fiati quasi free jazz.
Nel disco risuonano infiniti echi del rhythm and blues degli anni '60:
Crazy ripete un riff "drogato" alla Jimi Hendrix
e si arrampica su un pastiche di violini alla
Satanic Majesties (Rolling Stones).
John The Baptist erige un'armonia demoniaca sovrapponendo un canto
da predicatore delle piantagioni (una specie di Nick Cave in versione
sacrilega), un ossessivo tribalismo funky, una stridula fanfara di fiati e
un coro gospel (e una coda strumentale quasi bebop).
Sono brani articolati e complessi, che esaltano le qualita` di architetto
del suono di Dulli. Si tratta dell'ennesimo trasformazione di questo
singolare personaggio, prima shouter del grunge, poi autore maudit e adesso
produttore raffinato.
Lo strumentale conclusivo, The Vampire Lanois, una baraonda
free jazz dai toni gotici, fa pensare che il suo futuro potrebbe benissimo
essere alla testa di un ensemble strumentale.
Greg Dulli aveva la possibilita` di diventare uno dei cantautori piu`
delicati e intelligenti della sua generazione, ma sta invece
cercando la strada alla "superstardom" tramite un sound violento e
grossolano che rischia di farne una specie di Bruce Springsteen
dell'heavymetal melodico.
Destinato a un roseo futuro di cantautore soul, Dulli e` capitato nella scena
sbagliata, quella dell'hardcore prima e del grunge dopo, anche se nel momento
giusto.