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Jeff Buckley nacque a Los Angeles, figlio del grande cantautore
Tim Buckley
che pero` Jeff vide una volta sola (e verso cui non conservera` grande simpatia).
Trasferitosi a New York, divenne presto celebre nei folk club
di Manhattan, grazie a un innegabile talento canoro, come dimostra
l'EP Life At Sin-e' (Columbia, 1993).
Il talento compositivo e` ancora
latitante, come dimostra il fatto che soltanto una delle canzoni e` sua.
Le cover, oltretutto, lasciano a desiderare.
La casa discografica monto` una insistente campagna promozionale
per l'album Grace (Columbia, 1994),
sul quale Buckley suona chitarra, harmonium, organo e dulcimer ma e` anche
accompagnato da un complesso di tutto riguardo.
Senza rubare nulla alla memoria del padre, dal quale lo distingue un
registro assai piu' maschio e un tono assai piu' terreno, Buckley mette
a dura prova la sua vocazione in salmi pretenziosi come Mojo Pin
(scritta per lui da Gary Lucas).
Protagonisti del sound sono in realta' i lambiccati tintinni della chitarra
di Gary Lucas e i discreti sottofondi delle tastiere (suonate da Buckley
stesso), che esprimono al meglio la sua forma di religiosita' (meta'
dei titoli sono di ispirazione liturgica) in sofisticate composizioni popsoul.
L'orchestrazione elegante, le melodie elementari, la recitazione appassionata,
l'andamento a tratti sinfonico e a tratti folk fanno di Grace uno strano
ibrido di ballata leggera e di piece progressiva, di Stevie Wonder e di Genesis
(la canzone e` basata su Rise Up To Be di Lucas).
Il suo e' un cocktail d'alta classe:
rievocati i raga sottovoce dei primi Pink Floyd in Dream Brother, Buckley
recupera invece lo spirito cupo, rabbioso, nevrotico di Neil Young
in Eternal Life.
L'equilibrio piu' suggestivo fra quel barocco eclettismo e la sua intensa
emotivita' lo trova forse in solenni ballate come Lover, patetiche come
nell'accezione di Bob Dylan, ma anche travagliate nel solco di Van Morrison.
Il canto di Buckley sembra sempre prendere coraggio per strada: parte
in sordina, moderando le inflessioni nello stile dei cantastorie folk,
ma finisce in crescendo, scomposto e disperato al limite del blues e del gospel.
Buckley si ispira ai cantautori piu' intensamente spirituali e jazzati di
sempre, come Van Morrison e, appunto, suo padre Tim.
Il destino sembra pero` accomunarlo al padre piu` di quanto lo faccia la
musica: Jeff Buckley viene trovato morto nel 1997 a Memphis, morto annegato.
Postumo esce Sketches For My Sweetheart The Drunk (Columbia, 1998),
doppio album che raccoglie una ventina di inediti in maniera alquanto
disordinata e raffazzonata. Il primo disco contiene le session realizzate
con Tom Verlaine per quello che doveva essere il nuovo album di Buckley.
Il secondo disco contiene le versioni primitive di alcuni degli stessi brani
e di altri brani ancora "in progress". L'immagine che ne viene fuori e`
probabilmente falsa, ma e` quella di un artista gia` avviato alla corruzione
e alla decadenza artistiche.
The Sky Is A Landfill e Nightmares By The See fanno leva
sul roccioso boogie di Verlaine, per non parlare dell'epico riff grunge di
Yard Of Blonde Girls, e per il resto Buckley si presta a miagolare come
Marvin Gaye (Everybody Here Wants You) e a delirare a vuoto.
L'unico momento davvero brillante e` l'orientaleggiante
New Year's Prayer, peraltro palesemente incompiuta.
Questi esercizi di necrofilia finiscono spesso per lasciare l'amaro in bocca.
Troppe sue canzoni sono mosce, poco originali, poco intense. Sembra di
ascoltare il Tim Buckley del periodo commerciale, ormai privo di idee.
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