Ireland's Sinead O'Connor, one of the most televised women of her time, channeled punk anger into an acrobatic melisma made of glacial, murderous shrieks and childish, guttural gasps. Her style fused Gregorian chants, African-American spirituals, celtic ballads, middle-eastern litanies, and Meredith Monk's experiments on the human voice.
In the process, she became an icon of asexual rebelliousness (as opposed to Madonna's sexual kind).
That schizoid persona was propelled on The Lion And The Cobra (1987) by hard-rock riffs, discordant electronics, neoclassical arrangements, funk grooves and hip-hop tremors, that delivered the full impact of her traumas.
The shocking, epic and articulate vehemence of that debut was lost on I Do Not Want What I Haven't Got (1990), which reverted to sophisticated soul-pop music (such as Prince's Nothing Compares).
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Alla fine degli anni '80 la giovanissima irlandese Sinead O'Connor venne
prepotentemente alla ribalta di un'asfittica scena di cantautori.
O'Connor, con il suo piglio rabbiosamente punk e un tocco di
struggente romanticismo, impresse un'accelerazione spettacolare a tutto un
genere. Il suo personaggio fece epoca: O'Connor si era di fattoa
"de-sessualizzata", rasandosi il capo, annullando il sex appeal dei suoi
occhi da gatta e urlando come un'ossessa. Non c'era molto di femminile nel
suo atteggiamento pubblico o nel suo stile di canto.
La sua sgraziata intensita` si ricollegava semmai agli "urlatori" blues
degli anni '50, ma con un tono freddo e sarcastico che era parente dei
terroristi delle Baader Meinhof non delle piantagioni del Mississippi.
Proprio in questo O'Connor ruppe con la tradizione.
Nell'arco degli anni O'Connor e` pero` raramente riuscita a giustificare
artisticamente la sua fama, ma la sua influenza e` innegabile.
O'Connor si presento` precocissima, a vent'anni, con un album intenso e
rivoluzionario come The Lion And The Cobra (Chrysalis, 1987), il cui
shock maggiore e` il suo registro vocale: O'Connor si diverte a fare cose
con la sua voce che stonerebbero (letteralmente) nella gola delle altre
cantanti. I suoi improvvisi acuti gutturali riescono invece a suonare
non solo armoniosi ma anche trascinanti, riescono a convogliare proprio
le intense emozioni delle sue liriche.
Conscia del suo talento, O'Connor non si limita a cantare canzoni.
I suoi acrobatici vocalizzi sposano la liturgia gregoriana,
il canto "nero", la ballata celtica e le litanie mediorentiali con gli
esperimenti canori di Meredith Monk e Laurie Anderson.
Il disco vive, insomma, della sua fortissima personalita' musicale, piu` ancora
di quanto viva degli arrangiamenti lambiccati, dei riff di hard-rock
e dei ritmi esotici e tecnologici.
Forte di tanta forza espressiva, il disco affresca un universo magico e
fiabesco.
O'Connor scorrazza per canzoni rock trascinanti come Mandinka;
innesta linee funky e percussioni africane nel ballabile
epico e spaziale di Jerusalem;
si distende anche in tenere e marziali filastrocche celtiche come
Just Like You Said (arrangiata in maniera classicheggiante con fisarmonica,
clavicembalo e flauti).
Gli esperimenti di Laurie Anderson ispirano canti liberi
come Never Get Old
(con sovraincisioni di cori e ritmo di tamburi lontani),
e il funk d'avanguardia di Peter Gabriel le ispira I Want Your
(un trip-hop ante litteram con basso dub e canto soul).
O'Connor si consente persino il lusso di declamare l'alto dramma greco di
Troy sullo sfondo di un'orchestra sinfonica.
Capace di inerpicarsi in epici acuti, di sprofondare in lamenti struggenti e
e di distendersi in bisbigli innamorati, la voce di O'Connor e` una delle piu`
duttili ed espressive della storia del rock.
La musicista la esalta immergendola in canzoni violente
e articolare (influenzate dalle fratture armoniche dell'hip-hop) che sono
l'esatto opposto della tradizionale ballata per folk-singer e assomigliano
piu` ad allucinati psicodrammi. Il suo tragico ululato lacera la musica in
atroci confessioni di solore, vulnerabilita` e solitudine.
O'Connor aveva pero` esaurito con quell'opera di rottura quasi tutto cio`
che aveva da dire.
I violenti psicodrammi di quell'opera scompaiono del tutto dal successivo
I Do Not Want What I Haven't Got (Chrysalis, 1990).
Nothing Compares, una canzone di Prince, che lei rese con
disperata malinconia amorosa, le vale la stardom internazionale.
Il resto dell'album e` quasi un
tributo alla musica pop del passato: invece delle frenesie sismiche dell'hip-hop
o dei sottofondo elettronici, fanno capolino sezioni d'archi e cori
Quel che e` peggio, il suo registro di canto, appianate tutte le spigolosita'
dei suoi acuti dissonanti, e` diventato un vellutato bisbiglio da cocktail
lounge. La produzione (di sua mano) e` sofisticatissima e trasforma ogni
canzone in un piacevolissimo esercizio di kitsch, ma nulla piu`.
Il tema dell'album sembra essere una precoce insicurezza sentimentale
(invece della ribellione strafottente dell'album precedente).
Le sue liriche
pre-femministe definiscono la sua individualita` sempre in rapporto all'uomo
(o all'assenza dell'uomo).
Le accorate litanie di Feel So Different e 3 Babies, appena bisbigliate in
una brezza orchestrale, fanno pensare a un incrocio fra lo Springsteen piu`
contrito e l'Enya piu` crepuscolare.
La qualita` trascendente di questo nuovo stile di canto e` quasi l'opposto
dell'esuberante e veemente "corporalita'" degli esordi.
Il forte incedere rhythm and blues di I Am Stretched On Your Grave
non viene sfruttato per uno dei suoi voli surreali, bensi` per una cantilena
tanto soffusa e cosi` poco modulata da sembrare un mantra o un requiem.
Le liriche sono personali al punto da diventare imbarazzanti.
In queste vesti di signora raffinata, invece che di ragazzaccia irriverente,
O'Connor si deve pero` sentire un po` stretta. Tant'e` che
in The Emperor's New Clothes la cantante irlandese trova anche un ritornello
e una cadenza impeccabilmente powerpop e
in Jump In The River prova a imitare anche il registro sensuale di Chrissie
Hynde e l'andatura rock and roll dei Pretenders.
O'Connor diventa una celebrita` internazionale cantando la Nothing Compares 2U
di Prince, un'interpretazione che trasforma in moneta sonante il suo cronico
stato di prostrazione. La classe della cantante
non e` scomparsa, anche se e` quasi tenuta nascosta: e` la la musicista che
deve meglio calibrare il tiro.
I suoi atteggiamenti provocatori (o forse soltanto immaturi) la portano per
coerenza al disco che nessuno si aspettava,
Am I Not Your Girl (1992), una raccolta
di cover di brani tratti (per lo piu`) dal repertorio della musica leggera;
per di piu` con l'accompagnamento di una piccola orchestra da balera degli
anni '50. In realta` e` la logica conseguenza del suo nuovo ego:
O'Connor e` innanzitutto un'interprete, una grande interprete nella tradizione
delle chanteuse di cabaret. In fondo non sono troppi i boudoir che la separano
da Madonna. Cio` che la separa da Madonna e` semmai l'emotivita`, quel tremito
di vita (talvolta impercettibile, ma sempre presente) che riesce ad immettere
sempre e comunque anche nelle canzoni piu` piatte.
Si e` placata l'ira, ma non il suo bisogno di psicoterapia pubblica.
Fire On Babylon e` emblematica dell'intero Universal Mother (1994):
O'Connor usa se stessa, bambina abusata e abbandonata dai genitori, come
metafora per tutti i mali del mondo, dalle tragedie dell'Irlanda (nel rap di
Famine) ai crudeli dogmi della chiesa cattolica.
La cantilena rinascimentale di John I Love You, arrangiata per orchestra
da camera e percussioni giapponesi, e` il brano piu` ardito. Gli altri fanno
di quest'album il piu` spartano della sua carriera.
L'EP Gospel Oak (Chrysalis, 1997) interrompe il silenzio dovuto alla
nascita del secondo figlio con un pugno di confessioni molto personali che
alternano rabbia a dolore, supplica a desiderio. La
soffice This Is To Mother You (con un arrangiamento barocco, reminescente
di Enya)
e la marziale 4 My Love (con fisarmonica e chitarra spagnoleggiante)
non aggiungono comunque nulla di significativo al suo repertorio.
E` curioso che si ha l'impressione di una sorta di un continuo ripudio di se
stessa: di disco in disco O'Connor si sta probabilmente allontanando da cio`
che vorrebbe davvero cantare, esattamente come giorno dopo giorno rifiuta di
lasciarsi crescere i capelli e diventare la bella ragazza che potrebbe (e
forse vorrebbe) essere.
In questo rito sacrificale O'Connor consuma le sue
frustrazioni e insicurezze. In questo bagno catartico rivela la sua vera
identita': e` una maschera, non un'anima. In questo tributo alla sua infanzia,
anzi al mondo prima della sua infanzia, celebra l'innocenza che perse appena
nata, celebra l'ego che non le fu dato e che puo` intravedere soltanto nei
panni di altri.
La sua testarda e capricciosa indipendenza, la sua
scostante e imprevedibile personalita` (che non ha in realta` mai abbandonato
le strade) ne fanno un punto di riferimento "politico".
Ma, musicalmente, il risultato e` che nessuno dei suoi dischi resisterebbe a un
ascolto imparziale, non influenzato dalla sua immagine pubblica.
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