Ulan Bator is a French ensemble led by guitarist Amaury Cambuzat.
Quirky and austere compositions such as
Haupstadt and Radio Disco already defined their brand of
progressive-rock on debut album
Ulan Bator (Les Disques Du Soleil, 1994), but the band came into its
own with the all-instrumental
mini-album 2 Degrees (Les Disques Du Solei) that defined
their style as a synthesis of
post-rock (loud echoes of Slint in Polaire),
new wave (intimations of Chrome
in Episcope and D-Press TV),
and German rock of the 1970s (shades of Can and Faust in
Sea-Room and Silence).
The two discs will be later summarized on Polaire (CPI, 1998).
Vegetale (Disques Du Soleil, 1997) is a mature work in that vein.
Lumiere Blanche (eight minutes), Fievre Hectique and Hart transcend rock
music as chamber music of the fin de siecle, and the
surreal exotica of Cephalopode and Embarquement (seven minutes)
is a momentous achievement.
The production of Mike Gira turns Ulan Bator's
second full-length album, Ego Echo (Young God, 2000), into an
organic flow of ambient drones and psychedelic noise. The compositions are
now lengthy, slow and majestic. The orchestration is thick and sometimes
thundering
(harmonium, electric piano, Hammond organ, mellotron, trumpet, French horn).
The atmosphere is not gothic but certainly awe-inspiring and occasionally gloomy,
as the trio runs the gamut
from the folk ballad of Hiver to the medieval
madrigal of La Joueuse de Tambour,
from Neu (Santa Lucia) to Talking Heads (Etoile Astre).
Hemisphere and the 16-minute Let Go Ego are the tours de force.
Soeur Violence and Echo further the analytical method by merging
Edgar Varese, LaMonte Young and Labradford.
OK KO (Ursula Minor, 2002) offers eight "alternative" versions of
those tracks.
Rodeo Massacre (Jestrai, 2005)
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(Translation by/ Tradotto da Claudio Lancia)
Gli Ulan Bator sono una band francese capitanata dal chitarrista Amaury Cambuzat. Particolari ed austere composizioni come Haupstadt e Radio Disco definiscono subito sul disco di esordio Ulan Bator (Les Disques Du Soleil, 1994) il loro stile che si rifà al progressive-rock; ma solo con il mini-album strumentale 2 Degrees (Les Disques Du Solei) definiscono il proprio marchio come una sintesi di post-rock (forti echi di Slint in Polaire), new wave (intimazioni di Chrome in Episcope e D-Press TV), e kraut-rock tedesco anni ‘70 (ombre dei Can e dei Faust aleggiano su Sea-Room e Silence). I due dischi saranno più tardi riuniti in Polaire (CPI, 1998).
Il successivo Vegetale (Disques Du Soleil, 1997) risulta essere un lavoro maturo in questa vena. Lumiere Blanche, Fievre Hectique e Hart trascendono la musica rock come fosse musica da camera di "fin de siecle", ed il surrealismo esotico di Cephalopode ed Embarquement rappresenta il decisivo conseguimento dell’impresa.
La produzione di Mike Gira fa virare il secondo album degli Ulan Bator, Ego Echo (Young God, 2000), verso un flusso organico di suoni ambientali e rumori psichedelici. Le composizioni divengono prolisse, lente e maestose. L’orchestrazione è abbondante ed a volte realizzata con l’ausilio di molti strumenti (harmonium, piano electtrico, Hammond, mellotron, tromba, corno francese). L’atmosfera non è gotica ma di cero magniloquente ed a volte malinconica; il trio rincorre l’intera gamma di possibilità compositive: dalla ballata folk Hiver al madrigale medievale La Joueuse de Tambour, dai Neu (Santa Lucia) ai Talking Heads (Etoile Astre). Hemisphere ed i 16 minuti di Let Go Ego sono dei tours de force. Soeur Violence e Echo rappresentano l’ulteriore metodo analitico di fondere Edgar Varese, LaMonte Young ed i Labradford.
OK KO (Ursula Minor, 2002) propone otto versioni alternative di quei brani.
Ulan Bator: Vegetale (CPI, 1997)
Alfieri e promotori d'oltralpe, ma soprattutto intra-alpe, del suono post
per eccellenza, nella sua eccezione piu' pura e primordiale. Prendete un
mixer e miscelate bene
1/4 di psichedelia anni '70 con 1/4 di scuola di Louisville, aggiungete 1/4
di allucinogeni e infine 1/4 di savoir-faire ed una spruzzata di genio.
Agitate bene ma non troppo ed ecco
apparire il loro cocktail musicale. Colonna sonora da film impegnati e
profondi, musica di sottofondo per una delle mie migliori serate tra amici.
Il trio parte subito alla grande con la "Lumiere Blanche". Accordi
chitarristici lasciati spaziare ed echeggiare quel tanto che basta per far
provare il senso della vertigine e subito si cambia; il timbro diviene piu'
granitico, deciso, quasi arrabbiato per poi perdersi quasi subito nel nulla
e svanire; infine evolve in una danza di chitarre rarefatte che ciclicamente
si addensano per poi salire come vapore al cielo. Canzoni cosi' danno quasi
il senso dell'incompiuto ed esaltano ancor di piu' quel 1/4 di savoir-faire
di cui sopra. Ma non e' un caso: e' la regola che si ripete in molti brani.
"Cephalopode" in apparenza sembra essere la ghost-track di Spiderland
(Slint) e piu' si procede nell'ascolto piu' questa convinzione si consolida.
Tutte le canzoni hanno una durata piu' alta della "media" (perdonatemi il
termine) ma non per questo si perdono in vagheggi e reiterazioni forzate,
anzi i pezzi denotano una buona dinamicita', pur mantenendo sempre quel
tono distaccato, quasi panteistico. 'Penteistico': questa e' forse la parola
piu' giusta per descrivere le chitarre (perche' sono loro a fare da padrone,
mettiamo le cose in chiaro) che, come in "Pekisch Organ", vi avvolgono
modellandosi attorno in varie forme e colori. Le traccie partono da un'idea:
un breve riff per esempio, e poi da quel semplice seme prendono forma,
mutano, si scompongono e ricompongono (il tutto senza esagerare comunque,
capiamoci). "Fievre Hectique" dimostra che anche il vapore, trasformandosi
in nuvola e poi pioggia, puo' farsi notare, anche se poi subito dopo l'acqua
verra' riassorbita dal terreno e scomparira'. "Hart" inizia come un film
dell'horror, con violini che si librano oscuri ed inquieti in una notte
buia, descritta dall'immancabile organo da chiesa, mentre si odono i passi
della bestia che si avvicinano. Poi l'inquadratura si sposta verso il sole
che lentamente sta sorgendo, silenzioso e placido nella sua maestosita'
scaccia ogni pericolo, anche se alla fine (come in tutti i film dell'horror
che si rispettino) il mostro e' sempre in agguato e attende il prossimo
tramonto per ricominciare la sua caccia.
In possesso di una indubbia dote musicale e di un raffinato senso della
melodia, i 3 francesi non inventano niente di nuovo ma suonano talmente bene
da farlo sembrare ed il disco nel complesso e' apprezzabilissimo e
godibilissimo. D'altronde quali sono i gruppi che possono vantarsi di avere
inventato davvero qualcosa? La storia della musica e' illuminata da tante
stelle e da una quantita' infinitamente superiore di pianeti che vi
gravitano attorno. Questo corpi sono opachi e in pochi li notano, ma senza
di loro chi riempirebbe l'immenso vuoto tra le galassie?
7.5/10. Fabio Tonti
Ulan Bator: Polaire (C.P.I., 1995)
Primo capitolo di questo trio di francesi, Polaire rappresente il punto di
partenza per la loro personale trasformazione della psichedelia, ora
asservita a sonorita' piu' attuali, piu' post. Il timido pezzo d'apertura,
"Haupstadt", incomincia con un ronzio di chitarra di sottofondo e lente
percussioni ipnotiche su cui si instaura un suono di chitarra metallico e
ripetitivo ed una svogliata batteria. Gli strumenti vanno ossessivamente
avanti cosi' per un po' (che noia!) poi tutto dimprovviso si accende: la
chitarra diventa una motosega, basso e batteria martelli pneumatici che
sostengono un baccanale nato da chissa' dove, chissa' perche'.... Il
seguente "Polaire" riprende lento e sonnacchioso con 2 chitarre marca June
of 44, assistite occasionalmente da una moribonda armonica mentre il
batterista spazzola i tamburi. Poi come prima d'improvviso la scena si
ribalta: si accende un basso cupissimo e ribollente che sembra provenire da
10 mt. sottoterra, scosso da fuggevoli saettate di chitarra. Pochi minuti e
il timbro cambia ancora: un riff slintiano inquietante e psicotico. Ma anche
questo accenno si perde nel nulla... In "Sea room", emerge sopra le chitarre
una voce dal sottofondo, deformata in maniera agghiacciante, resa demoniaca,
mentre le corde si agitano sempre sulle stesse note. Immancabile cambio,
questa volta piu' continuo dei precendeti. Immaginatevi un mix tra June of
44 e Hash Jar Tempo con Dave Pajo alle chitarre. Atmosfere eteree, surreali,
catarsi e psichedelia si fondono in un suono pulito, limpido ma ancora
troppo grezzo e poco raffinato. In "Cerf volant" scomodano pure un flauto
alla Ozric Tentacles ma il risultato e' sempre le stesso: lunghe
reiterazioni che non giungono a niente e cosi' si e' costretti a meta' o
fine canzone all'immancabile stacco e deciso cambio di tema, oramai
prevedibile e poco significativo. "Cheetah Carnage" attacca con pesanti
acidi e punkeggianti riff sotto i quali la voce gia' deformata e resa
irriconoscibile viene schiacciata, diventa solo un rumore di sottofondo in
piu'. Seppur con la testa carica di idee, i 3 le vogliono scaricare addosso
all'ascoltatore tutti in una volta, senza pensare tanto ad approfondirne
anche una sola. Finiscono col confondere persino se' stessi. "D-Press T.V."
pare essere l'eccezione: stupenda con quel suo ritmo sincopato e incedente,
gli strumenti finalmente armoniosi tra loro, riesce ad erigiere un muro
sonoro spesso e vibrante che in qualche misura mi ricorda gli
incommensurabili GodMachine, peccato per il finale miseramente troncato.
"Silence" e' una noiosa atmosfera di nulla, che non dice nulla. Nel
complesso questo disco traccia le rotte per il successivo splendido
capolavoro "Vegetale", ma appare ancora troppo farraginoso e incerto il loro
approccio, poco deciso e fin troppo grezzo. Hanno ottime idee me per ora non
riescono ad esprimerle appieno.
Voto 6
Fabio Tonti
Ulan Bator: Ego: Echo (Sonica, 2000)
Con Ego: Echo gli Ulan Bator provano a dare una ulteriore sterzata nelle
sonorita' quanto nei contenuti musicali nel tentativo di evitare la propria
saturazione artistica in campi oramai gia' battuti. Il risultato e', come
spesso succede in questi casi, ancora un po' acerbo ma lascia intravvedere
ottime prospettive se avranno il coraggio di proseguire e osare di piu'.
"Hemisphère" e' una dolce e toccante nenia sorretta da un piano di stampo
Rachel's, eterea ed ipnotica con chitarre che sembrano sussurrare come la
voce. Altra cosa e' la seguente "Santa Lucia", che richiama ai primi Sonic
Youth: melodie anomale e chitarre stonate, ritmiche controtempo, voci acide
e distorsioni imperanti: un panzer che avanza sul campo di battaglia ed alla
fine viene colpito. "Etoile Astre" sembra essere la descrizione
dell'avanzare cadenzato di un plotone militare in parata: ripetitiva,
ossessiva e precisa metricamente. Mette in risalto l'"effetto ipnosi" che e'
forse il marchio di fabbrica del gruppo: il continuo ripetersi e dilungarsi
(a volte anche oltre misura) della medesima intuizione fino a farcela
penetrare in testa come l'osservare il perpetuo oscillare di un ciondolo.
"Let go Ego!" sono 16 minuti di allucinante e allucinata ipnosi portata
avanti a 2 livelli: un primo piano sempre uguale che si ripete variando
molto raramente ed un sottofondo in cui si alternano psichedelie di
pianoforte e chitarra assieme a voci ostinatamente ossessive. Il tutto
quindi sfocia in una muscolosa ballata alla Rodan per poi finire in
dispersione con la sola voce a ripetere all'infinito il titolo della
canzone. "LA Joueuse de Tambour" inizia con chitarre di stampo ancora
"sonico", su cui si installa una ritmica di batteria saettante, agitata che
accompagnera' le chitarre fino alla fine, anche quando queste si evolveranno
in una rumorosa, toccante e struggente ballata ricca di chiaroscuri. Ancora
degna di nota e' la conclusiva "Echo", preceduta da strane sirene d'allarme
a tutto spiano, quasi a voler premonire il proprio distacco dal resto del
disco. Poi silenzio e inizia una ninna-nanna tristre e stranita con tanto di
coretto sottofondo che fa "Na-na-na-na-na" su cui si innesta un'atmosfera
funerea e da film horror a presagire l'ennesimo cambio di registro: 3 minuti
e mezzo di reiterazione di un unico riff slintiano che lascia perplessi e
alquanto insoddisfatti.
Nel complesso il disco ribadisce a mio parere la predilizione del gruppo per
i "concept album": opere che portano avanti un discorso non solo musicale,
ma artistico e (esagerando) filosofico. Il risultato e' a volte la fusione
delle tematiche, a volte la scissione che risulta alquanto incomunicativa.
Nel complesso e' un buon disco cervellotico.
7/10. Fabio Tonti
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