- Dalla pagina sui Beach House di Piero Scaruffi -
(Testo originale di Piero Scaruffi, editing di Stefano Iardella)


(Tradotto da Antonio Campo)

I Beach House, il duo di Baltimora del chitarrista Alex Scally e della cantante/tastierista Victoria Legrand, hanno coniato un nuovo slo-core languido e decadente con il breve album Beach House (Car Park, 2006), che ricorda solo vagamente i famosi predecessori (Mazzy Star, Yo La Tengo).
Un senso di nostalgia esala dalla ritmica valzer e dalle tastiere vecchio stile di Saltwater. Un'altra canzoncina dal ritmo valzer, Auburn and Ivory, ha qualcosa della maestosa malinconia di Nico. Arrangiamenti medio-orientali decorano la melodia pop di Tokyo Witch. La countryeggiante ballata Apple Orchard attraversa territori psichedelici grazie a un drone tastietistico circolare e un trasognato assolo di chitarra. Legrand si avvicina come può alla musica soul in Master of None, accompagnata da un organo quasi liturgico. Sfortunatamente la seconda metà della collezione è molto inferiore (nonostante il canto sinistro e i rumori elettronici di The House On The Hill e la lunga litania di Heart and Lungs), un segno che questo sarebbe dovuto essere soltanto un EP. Clavicembalo e organo troneggiano tra gli umili arrangiamenti.

La delicata, tenue, sfocata atmosfera del debutto diventa più consistente in Devotion (Carpark, 2008). Le gemme dell'album sono due canzoni che praticano la stessa strategia: il carillon di clavicembalo di Wedding Bell, intriso di dolce romanticismo anni sessanta, e la maestosa Heart of Chambers, anche questa legata a un tenero ritornello da carillon (organo e chitarra invece del clavicembalo) e innalzata da un suono sixties. La sussurrata e languida D.A.R.L.I.N.G. è solo un po' meno efficace, nonostante una coinvolgente progressione d'organo. L'aria di piano neoclassica di You Came to Me e la maestosa ed ipnotica ballata Gila (un po' troppo influenzata dai Cocteau Twins) attraversano territori più oscuri. La loro controparte sono le sognanti e cosmicamente dilatate ninne nanne Turtle Island e All the Years. Il synth-pop di Astronaut Legrand è quello che risulta peggiore.

Nonostante la brillante produzione Teen Dream (SubPop, 2010) emana un senso di austero sebbene pigro sognare ad occhi aperti. Il modo di cantare costretto e freddo di Victoria Legrand è diventato un arte in sè stessa nella tiepida e tenue Zebra e nella mite e dolce Lover Of Mine. Ci sono relativamente pochi momenti di panico: il singolo cabarettistico Used To Be (anche la migliore dell'album), il carillon di clavicembalo di Take Care (il secondo miglior pezzo) e 10 Mile Stereo, che ha un ritmo supersonico per i loro standard. Principalmente l'album è un lungo elegante deliquio. Pura atmosfera.
Il vero cambiamento emotivo viene dalla lenta e magniloquente Silver Soul, dalla solenne Walk In The Park, dalla protratta agonia di Real Love, e dal dream-pop alla Cocteau Twins di Norway. Queste sono realizzate in forma quasi di inno e ciò le rende più profonde e, allo stesso tempo, meno atmosferiche.


(Tradotto da Stefano Iardella)

Il molto più pubblicizzato Bloom (Subpop, 2012), la loro registrazione più barocca fino ad ora, ha annunciato la transizione verso un suono molto più mainstream ma senza sacrificare nulla della loro vecchia identità. Le storie estremamente noiose e i testi infantili non tolgono nulla all'atmosfera piacevole, essendo quest'ultima la vera ragion d'essere della band. Molti brani sono prevedibili quanto qualsiasi melodia pop può essere. Per cominciare, il ritornello tagliente di Myth si rifà alle sognanti ragazze ye-ye degli anni '60. Quello stile di canto intimo e ingenuo è condito in Wild con ritmi elettronici e arrangiamenti che ricordano il synth-pop mid-tempo degli anni '80. The Hours si apre con un respiro singhiozzante in stile Beach Boys e un tempo di marcia in stile Tommy Roe.
Il pezzo in stile Abba Lazuli (basta ascoltarlo a una velocità maggiore) e l'ipnotico e romantico singalong Wishes accentuano solo la sensazione di dejavu. La marziale e stridente Other People (forse l'apice di Legrand) è la dimostrazione definitiva del loro lento e sobrio revival di stili melodici vecchio stile. Una tesi sul sublime nella musica rock dovrebbe dedicare un capitolo a queste creazioni: maestria impeccabile, arrangiamenti semplici e scintillanti, una straordinaria capacità di esprimere vulnerabilità e desiderio. I Beach House hanno coniato un nuovo genere, il "summertime pop", un tipo di elegia paradisiaca che può anche diventare "pop autunnale", con un minimo cambio di tono. Nel frattempo, On The Sea si allontana verso un altro universo e Irene scava un tunnel nella psiche che conduce dal dream-pop indietro nel tempo, alle oniriche creazioni guidate da Nico con i primi Velvet Underground. Questa è probabilmente la loro collezione più completa.

Alex Scally ha spostato le tastiere in primo piano su Depression Cherry (Sub Pop, 2015) e Victoria Legrand ha reso il suo canto ancora più intimo. Le tastiere e le chitarre Levitation si basano in gran parte su due suoni di tastiera, un drone subliminale e un pattern vorticoso. Sparks (la migliore) contrappone un organo vintage a un (dolce) muro di rumore prima che un croccante assolo di chitarra rovini l'atmosfera. L'ipnotica ninna nanna Days Of Candy impiega un coro di 24 elementi ma osserva ancora lo stesso dogma: queste canzoni sono fondamentalmente statiche, facendo affidamento non su una storia ma sul mantenimento di un'aggraziata compostezza. D'altra parte, Space Song sembra un tradimento del loro ideale, una vivace canzoncina synth-pop che potrebbe essere una demo perduta degli anni '80. Idem per la ballata romantica PPP, che ricorda la musica dei teen idols degli anni '50. E lo stesso vale per Wildflower, avvolto in un arrangiamento orchestrale e spinto da un ritmo dance. Questo album ha segnato un improvviso calo di ispirazione.

Pochi mesi dopo i Beach House pubblicarono un altro album, Thank Your Lucky Stars (Sub Pop, 2015), che sembrava completamente liberato dal dogma originale. Majorette è emblematica: una canzoncina affascinante, stridente e pop che non cerca di nascondere ciò che è. Molte canzoni finiscono per sembrare versioni low-key al rallentatore di classici: la pulsante e sensuale All Your Yeahs contiene echi della disco-music di Giorgio Moroder, Common Girl (grazie anche al suo effetto clavicembalo) replica l'oscuro presentimento dei Doors, e l'album raggiunge l'apice dell'ipnosi con One Thing, che suona come una versione al rallentatore di White Light White Heat dei Velvet Underground; ma Elegy To The Void tenta invano di eguagliare la profondità metafisica del lieder gotico di Nico. L'apice del pathos si raggiunge invece con Somewhere Tonight, un valzer romantico dalla parte vocale quasi austera, a metà tra Misguided Angel dei Cowboy Junkies e Ave Maria di Franz Schubert.
Sembra che le canzoni (mediocri) di Depression Cherry fossero gli avanzi di questo album (molto migliore), anche se Thank Your Lucky Stars è uscito più tardi.

Il solenne singolo Chariot (2017) suona come una versione da chiesa di Somewhere Tonight.
B-Sides and Rarities (2017) è una raccolta.

La metamorfosi si completa con 7 (Sub Pop, 2018), un album di dance-pop mainstream contenente una manciata di singoli: Dark Spring, un'altra canzone con un atmosfera in stile Velvet Underground; il denso e quasi cacofonico Lemon Glow; la locomotiva rumorosa e veloce di Dive; e soprattutto il maestoso e rilassante Lose Your Smile. Per i nostalgici degli eterei Beach House di un tempo, l'album contiene la teneramente romantica Pay No Mind e la litania sussurrata L'Inconnue, a metà strada tra Enya e Françoise Hardy.

I 18 brani Once Twice Melody (2022), originariamente pubblicati come quattro EP separati, sono stati meno spudoratamente commerciali e consolidavano il loro nuovo punto di forza: un effetto onirico ottenuto accoppiando gli arrangiamenti graduali di David Campbell e i vocalizzi sussurrati di Legrand. In generale, questo produce litanie dance-pop lente, pastose, appiccicose, eteree e vagamente estatiche come Once Twice Melody e Masquerade; e troppo spesso si traduce in canzoni senza identità come Through Me (con un ritmo che qualsiasi adolescente potrebbe creare su una drum-machine economica) e i sette minuti di Over and Over. Potrebbe non essere una coincidenza che alcune delle migliori canzoni siano così derivative: il lieve boogie di Superstar suona come i Mazzy Star che coverizzano i Velvet Underground e, guidata da un organo horror, la languida Pink Funeral sembra cupa musica da chiesa con un ritornello alla Pink Floyd. Anche il semplice carillon su un ritmo propulsivo di Runaway e il lento crescendo di Only You Know sono abbastanza coinvolgenti da giustificare la loro esistenza. Melodicamente parlando, i picchi arrivano alla fine: Hurts to Love, un'altra simpatica imitazione delle melodie francesi degli anni '60, e la toccante Many Nights, che potrebbe essere una delle malinconiche ninne nanne di Cowboy Junkies, mentre ESP è semplicemente una melodia al rallentatore della Electric Light Orchestra. Questo vasto album è inondato di riempitivi davvero pessimi (in particolare nel terzo EP). Con un po' di rifinitura sarebbe stato uno dei migliori della loro carriera.


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