- Dalla pagina sui 1975 di Piero Scaruffi -
(Testo originale di Piero Scaruffi, editing di Stefano Iardella)
I 1975, un quartetto di Manchester formato nel 2002 e guidato dal cantante Matthew “Matty” Healy (1989), hanno
debuttato con l’EP di quattro canzoni Facedown (2012), contenente la
prima versione di The City, l’EP di quattro canzoni Sex (2012), l’EP
di cinque canzoni Music for Cars (2013), contenente Chocolate, l’EP
di quattro canzoni IV (2013), contenente la seconda versione di The
City.
Ispirati ai temi emo e screamo del decennio precedente, e alle band che
hanno sposato questi temi con “ritornelli” pop (Taking Back Sunday,
Fall Out Boy,
Dashboard Confessional), l’album
di sedici canzoni The 1975 (Dirty Hit, 2013) è un viaggio nel passato, aggiornato
alle tecniche di produzione elettronica degli anni 2010.
Il dance-rock degli anni '80 è ben rappresentato dalle canzoni che costituiscono il loro marchio
di fabbrica: The City, Chocolate e Sex (da qualche parte
tra Inxs and U2). Talk evoca Peter Gabriel e
Robbers imita la struttura di Every Breath You Take dei Police. La maggior parte dell’album è
costituito da una mediocre fusione di emo-pop e funk-rock con un grado
variabile di arrangiamenti elettronici (M.O.N.E.Y., Settle Down, Pressure).
E’ difficile salvare qualche canzone della seconda parte, il che significa che
questo è effettivamente solo un "greatest hits" degli EP con
l’aggiunta di una manciata di canzoni (in particolare Heart Out) che meritavano
di stare in un quinto EP e molti riempitivi.
Gli arrangiamenti elettronici rendono l’album di 78 minuti I Like it When you Sleep, for you are so Beautiful yet so Unaware of it (Dirty Hit, 2016) più toccante ma non meno derivativo. Love Me mescola Fame di David Bowie con i Duran Duran (con un sintetizzatore stridulo che suona come un theremin), e Ugh mescola Prince con la disco-music. A Change of Heart è un synth-pop atmosferico e pulsante ma senza i “ganci” dei Pet Shop Boys. Il frenetico funk-rock She's American suona come una leggera versione dei Red Hot Chili Peppers. Un po’ più originale sono la cantilena febbrile The Sound e il ragtime-soul Loving Someone. Non c’è dubbio che la loro specialità sia la ballata pop: la languida ed elettronica Somebody Else evoca l’epoca dei Tears For Fears, Paris è un’altra copia di Every Breath You Take, e specialmente la dolce elegia Nana rasenta il folk-rock sognante di Simon & Garfunkel. La banale litania synth-pop di Change of Heart mostra i limiti del formato, e in effetti l’assonnata ballata gospel-soul di sei minuti If I Believe You non è molto lontana dal mondo degli Steely Dan. I 1975 hanno il tempo e il coraggio di sperimentare verso numerose direzioni, dalla musica ambient (la misteriosamente statica Please Be Naked) allo shoegaze (la ipnoticamente distorta Lostmyhead). The Ballad of Me and My Brain è un altro accenno all’avant-pop di Peter Gabriel, e I Like It When You Sleep, for You Are So Beautiful yet So Unaware of It si trasforma da una sofisticata glitch-dance alla Four Tet in un astratto dipinto sonoro e infine in una jam hip-hop. L’album è persino più lungo del primo, ma questa volta c’è meno riempitivo, e ci sono sufficienti versioni differenti della band per soddisfare un pubblico eterogeneo.
I 1975 si convertono a un avant-pop in stile Radiohead su A Brief Inquiry Into Online Relationships (2018): il lamento robotico di I Love America and America Loves Me, la ballata lounge funk-jazz Sincerity Is Scary (con cinguettio caotico dei fiati e coro gospel), l’astratto dipinto sonoro della prima metà di How to Draw/ Petrichor. Tutto suona come un dejavu (o, per meglio dire, "deja heard"), dalla maestosa aria di Give Yourself a Try al dinamico dance-pop con contaminazioni caraibiche accuratamente architettato di Tootimetootimetootime, da Love It If We Made It (una progressione di staccato tribali alla Tusk dei Fleetwood Mac) al singalong infantile di It's Not Living If It's Not With You. E’ derivativo al massimo, ma la quantità compensa la qualità: è difficile trovare un album con così tanti falsi ben eseguiti. Sfortunatamente, metà dell’album è occupato dalle ballad, crooner che abbracciano un ampio spettro, da Frank Sinatra a Bon Iver: notturno e jazzato (Mine, immerso in una doccia di archi e accarezzato da un sassofono delicato), orchestrale languido (Inside Your Mind e I Couldn't Be More In Love), shoegaze (I Always Wanna Die), acustico (Be My Mistake) e il più creativo di tutti, Surrounded By Heads and Bodies, in stile bossanova.
Notes on a Conditional Form (2020), 22 brani, la seconda installazione della trilogia “Music for Cars”, viene lanciato dopo la pubblicazione di sette singoli. L’album inizia in maniera promettente con un triste pianoforte d’accompagnamento a un discorso della giovane attivista ambientale Greta Thunberg, The 1975, seguito dall’espressionista voodoobilly People e, di nuovo cambiando completamente stile e scenario, dall’interludio sinfonico-elettronico di The End. Sembra terapia dello shock, ma poi arriva lo shuffle dance-soul di Frail State of Mind, il quale, malgrado il testo infarcito di angoscia, è banale, dolciastro e semplicemente artificiale. Altre di queste trite ballate elettroniche e disco riempiono a casaccio l’album, da I Think There’s Something You Should Know a What Should I Say. Peggio: c’è l’imbarazzante blues-rock melodico di Roadkill, l'obbligatorio tributo al synthpop degli anni ’80 If You’re Too Shy (Let Me Know), la tediosa elegia country di The Birthday Party, dell’orribile folk-rock in Me & You Together Song, la ballata alla Phil Collins Don’t Worry, fino al singalong idiota di Guys. Le parti strumentali non sono molto più originali, con il semplicistico (o infantile?) interludio ambientale di Streaming, e Having No Head che trasforma una sottomessa sonata al piano in una locomotiva techno. Le canzoni più fragili sono un po’ meglio: l’eterea ninna-nanna anti-religiosa Jesus Christ 2005 God Bless America e l’acustica Playing on My Mind. I migliori arrangiamenti si trovano nella beffa gospel di Nothing Revealed / Everything Denied e nel quasi-reggae di Tonight (I Wish I Was Your Boy) ma specialmente nell’etica dance elettronica di Shiny Collarbone e nell’unico brano in cui la voce è davvero usata in maniera creativa, Yeah I Know, che vanta l’unico beat interessante dell’album.
La quantità non è qualità, e la semantica non è sintassi.
Being Funny in a Foreign Language (2022), prodotto da Jack Antonoff, sembra un tributo di Matt Healy agli eroi della sua infanzia. L'esuberante danza funk guidata dal sax Happiness, il gioco dance-pop alla Phil Collins Looking for Somebody, la ballata alla Sting Oh Caroline, I'm in Love With You (a metà strada tra Chicago e Toto), e così via. Sembra che Healy stia rivisitando le classifiche pop degli anni '80. La migliore è The 1975: minimalismo pianistico alla Steve Reich e melodia psichedelica ipnotica.
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