(Translation by/ Tradotto da Alessandro Rusignuolo)
Il misterioso texano Impossible Nothing ha faticosamente
realizzato il monumentale tour de force di quattro ore dal nome Phonemenomicon
(2016), composto da 26 collage di dieci minuti (ognuno dura esattamente 10
minuti). Perché 26? Perché ogni pezzo prende il titolo di una una lettera
dell'alfabeto.
"A" solamente contiene più idee rispetto a un
brano medio di tre minuti, assimilabile alla composizione di una colonna sonora
cinematografica con sezioni che sono sentimentali e sezioni che sono puramente
giocose.
"B" saccheggia dalla musica hip-hop per creare un
ipnotico orologio industriale sincopato.
"C" inizia come un assurdo campione di una canzone
funk-soul zoppicante ma diventa presto uno straziante psicodramma... per
tornare poi a una festa funk-soul.
"D" decostruisce il jazz con una moltitudine
vertiginosa di frammenti collidenti.
"E" gioca con un martellante shuffle afro-funk, ma
si immerge rapidamente in una continua e mutante musica meccanica fondendosi
verso la fine in un potente pugno di riff e tambureggiamenti.
"F" dissolve passi reggae in una melassa di
elettronica deformata che alla fine viene dirottata in una jam jazz.
"G" punta a suonare come la colonna sonora di un
thriller, ma poi fa una deviazione verso un canto esotico surreale, solo per
finire con un tema cinematografico più magniloquente.
"H" è un altro tributo alla musica soul euforica
degli anni '60 con una grande pausa/assolo di tastiere distorte al settimo
minuto.
Un assolo mozzafiato simile apre "I".
"J" disintegra prima il funk-jazz degli anni '60,
poi lancia un missile techno isterico, quindi mette in moto la musica a
macchine fredde e infine riscopre l'umanità in un drone sintetico e suoni da
spiaggia.
"M" crea una romantica melodia di tromba su poliritmi
meccanici che si trasforma in un'orgia funk e una sonata da videogiochi.
Una donna che grida deve duellare con un rapper, una
fisarmonica e una grande band in "N", uno dei pezzi virtuosi
disseminati di tutti i tipi di incidenti.
"K" è pura musica da pista da ballo, mentre
"S" termina in uno stato di panico frenetico.
Secondo gli standard di questa opera, "P" è musica
ambient: la sorgente non può essere identificata e tutto ciò che ascoltiamo è
una sequenza ipnotica di beat e accordi; lacerti molto accattivanti di musica
dance strumentale, che verso la fine si trasforma in una sorta di melodia
prodotta da uno xilofono. L'artista concreto Pierre Henry avrebbe dovuto fare
questi esperimenti.
La musica slava-zingara e il dubstep sono gli ingredienti di
"O".
"R" intona un battito di danza reggae spastico e
una tastiera petulante si lancia in un inno suonato a tripla velocità. Ancora
tre minuti e il pezzo è invaso da rumori alieni così che, quando riprende la
tastiera impertinente, sembra musica prodotta da UFO.
"T" è una versione ancora più creativa del ritmo
reggae, come un esercito di senzienti macchine industriali. Suscita un caos
hendrixiano mescolato con armonie vocali di un antico passato e finisce in una
festoso party in spiaggia.
"X" dipinge un altro panorama esotico surreale,
questo però con sfumature indiane e klezmer.
"Z" suona come un synth-pop alla moda dance dei
Los Del Rio, Macarena, del guru elettronico del funk-jazz Herbie Hancock,
lentamente contaminato da una fanfara di corno e da un canto hippy estatico.
Ogni volta che l'artista inietta umorismo o satira, il
progetto evoca i The Residents, ma evidentemente molta più scienza è entrata in
queste quattro ore di taglia e incolla superumana.
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